Chesterton racconta san Tommaso

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Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), noto scrittore e giornalista britannico, nel 1933, circa dieci anni dopo la sua conversione dall’Anglicanesimo al Cattolicesimo, scrisse un’opera biografica su San Tommaso D’Aquino (1225-1274); in Italia l’ultima edizione è stata ripubblicata dalla casa editrice Lindau (seconda edizione del 2016) con la traduzione dall’inglese di Giovanna Caputo.

È un’opera unica nel suo genere, perché l’autore, oltre a tracciare un profilo della vita di questo santo e della sua filosofia, ne evidenzia l’impatto sulla società del suo tempo e la confronta con il pensiero moderno, apportando vivaci critiche e ironici commenti, come è solito lo stile di Chesterton, ai pregiudizi dei suoi contemporanei sul pensiero cattolico.

San Tommaso viene descritto e confrontato assieme ad un altro grande santo, san Francesco d’Assisi, non perché fossero coevi, ma perché, il fondatore dei Francescani ed il più alto esponente dei Domenicani, erano i più rappresentativi campioni degli ordini monastici che, pur nelle loro differenze e, forse, anche grazie ad esse, maggiormente portarono alla riforma della Chiesa nel XIII secolo. Chesterton la descrive come una delle più grandi riforme della Sposa di Cristo in terra, perché il movimento francescano e quello domenicano hanno contribuito al pieno sviluppo del Cristianesimo, sviluppo in senso stretto perché inteso come accrescimento della capacità di comprendere nella sua totalità la dottrina cristiana. «Quando diciamo che un cucciolo si sviluppa in un cane, non vogliamo dire che la sua crescita è un graduale compromesso con un gatto; vogliamo dire che diventa più cane, non meno»[1]. Questa simpatica immagine esprime come un essere tenda a migliorare se stesso, cioè si perfezioni, cerchi di esprimere a pieno il proprio essere.

«Questi due grandi uomini erano impegnati nella stessa opera grandiosa, l’uno con lo studio e l’altro andando per strada. Non apportavano innovazioni al cristianesimo, nel senso di introdurvi elementi pagani o eretici; al contrario, portavano il cristianesimo nella cristianità. Ma il loro compito era di riportarlo indietro contro la pressione di certe tendenze storiche che si erano consolidate come abitudini in molte scuole e correnti autorevoli della chiesa cristiana; e usavano strumenti e armi che a molti sembravano di derivazione eretica o pagana. San Francesco usava la Natura così come San Tommaso usava Aristotele e pareva ad alcuni che avessero usato l’uno una dea pagana e l’altro un filosofo pagano. […]

Forse verrò frainteso se dico che con il suo amore per gli animali san Francesco ci ha salvati dal buddhismo, e con la sua passione per la filosofia greca san Tommaso ci ha salvati dal platonismo. Ma è meglio dire la verità nuda e cruda: sono entrambi la riconferma dell’incarnazione, perché hanno riportato Dio in terra»[2].

Possiamo, inoltre, aggiungere, a commento della citazione di Chesterton, che a seguire la vera dottrina della Chiesa ci si salva sia dallo gnosticismo che dal materialismo.

 

 

«Si può affermare senza tema di essere smentiti, in quanto si tratta di un fatto storico, che san Tommaso è stato un grand’uomo che ha riconciliato la religione con la ragione, estendendola al campo della scienza sperimentale, che ha affermato che i sensi sono le finestre dell’anima e che l’intelletto aveva il diritto divino di alimentarsi di fatti concreti, e che era compito della fede assimilare quanto c’era di assimilabile dalle più indigeste e materialistiche filosofie pagane»[3].

Alcuni sacerdoti coevi a san Tommaso «rimanevano inchiodati alla verità testuale delle Sacre Scritture, quando san Tommaso aveva già parlato della fonte di ispirazione rappresentata dalle filosofie greche. Mentre lui sosteneva la funzione sociale delle opere, loro soltanto la funzione spirituale della fede. L’essenza della dottrina tomistica è che la ragione è degna di fede; l’essenza della dottrina luterana è che la ragione non è affatto degna di fede.

Quindi, nel momento stesso in cui questo fatto viene riconosciuto per vero, c’è il rischio che tutti gli indecisi di parere contrastante passino improvvisamente all’estremo opposto. Coloro che fino a quel momento avevano accusato lo scolastico di essere un dogmatico, cominceranno ad ammirarlo come il modernista che ha stemperato il dogma. Si daranno subito da fare per adornare la sua effige con tutte le ghirlande appassite del progressismo, per presentarlo come un pensatore in anticipo rispetto ai suoi tempi, il che significa sempre che è d’accordo con il nostro tempo, e gli attribuiranno il merito di essere il padre del pensiero moderno»[4].

Si riportano queste citazioni, non per scoraggiare il lettore a guardare l’opera originale, anzi, sono alcuni dei tanti esempi di brillante critica che si ritrovano nel libro, ma per guardare al pensiero di san Tommaso con le lenti del pensatore moderno, che tanto esalta la ragione umana e il progresso,  e dunque non potrebbe far altro che acclamare l’Autore come grande teologo e filosofo innovatore, per dirla con l’ironia di Chesterton: «si daranno subito da fare per adornare la sua effige con tutte le ghirlande appassite»[5], ma, se venisse ribadito il fatto che era un monaco domenicano, un cattolico, un uomo medievale, egli perderebbe tutta la sua fama.

Il testo sembra molto improntato ai nostri tempi, cosa che era, certamente ed a maggior ragione, anche per l’epoca di Chesterton, poiché non ha l’impostazione classica di una biografia storiografica, ma possiede un taglio saggistico di critica al pensiero contemporaneo attraverso proprio san Tommaso; i capitoli più autenticamente biografici sono intitolati rispettivamente: «L’abate fuggitivo», «La rivoluzione aristotelica» e «La vera vita di san Tommaso». Comunque, la maggior parte delle pagine del testo parlano al lettore come se volessero dimostrargli qualcosa, come se gli volessero dire: «i pregiudizi che hai togliteli!». Si riporta esplicitamente un pregiudizio dei Vittoriani, termine che Chesterton utilizza per intendere quegli intellettuali inglesi che si fanno megafono dell’ideologia dell’Impero britannico: esaltando, al tempo stesso, la superiorità inglese e il primato dell’Anglicanesimo. Essi coltivano la conseguente idea che nessuno potrebbe mai fare qualcosa di buono nel mondo moderno prendendo ispirazione dal principale movimento del mondo medievale, intimamente cattolico; San Tommaso d’Aquino visse in quel mondo di monaci che, secondo i Vittoriani come Macaulay[6], sarebbero stati incapaci di produrre pensiero filosofico: erano, infatti, convinti che soltanto gli eretici avessero fatto qualcosa di buono per l’umanità[7].

Altro eccezionale confronto è quello tra il Rinascimento ed il Medioevo, confronto che fa comprendere come la passione degli umanisti per l’antica Roma fosse un’illusione di innovazione ad imitazione di una civiltà pagana morta, mentre il vero progresso era stato proprio apportato dalla civiltà medievale; una cattedrale gotica, ad esempio, era più perfetta e innovativa rispetto al Pantheon.

«Non si può capire la grandezza del XIII secolo se non ci si rende conto che ha rappresentato un’enorme crescita di cose nuove, generate da una cosa viva. Il dogma cristiano dell’incarnazione divina, il più grande e misterioso dei dogmi. In questo senso è stato più audace e più libero di quello che viene chiamato Rinascimento, che è stato solamente la resurrezione di cose vecchie ritrovate da una cosa morta. In questo senso il movimento medievale non è stata una rinascita, ma più propriamente una nascita. Non ha costruito i suoi templi a imitazione dei sepolcri, né ha richiamato dall’Ade gli dei morti. Ha prodotto un’architettura altrettanto innovativa quanto l’ingegneria moderna, la quale in realtà è ancora oggi l’architettura più moderna. In questo senso il Rinascimento potrebbe essere chiamato “degrado”. Comunque li si guardi, non si potrà mai dire che il gotico e le opere di san Tommaso siano stati un degrado.  Hanno rappresentato uno sforzo innovativo, pari alla titanica spinta dell’architettura gotica; e la loro forza traeva origine da una religione innovatrice»[8].

 

 

 

Di questo mondo medioevale l’apice teologico è San Tommaso d’Aquino, settimo figlio del conte Landolfo I d’Aquino (di cui si ignora la data di nascita e morto nel 1245). Fin dall’infanzia aveva dimostrato scarso interesse verso le occupazioni dei giovani rampolli delle famiglie nobili; i tornei, i duelli, la falconeria, la caccia non erano cose che facevano per lui, era un ragazzo grande e grosso, fin troppo tranquillo e taciturno, proprio questo temperamento fece sì che li si attribuisse il soprannome di bue muto: «raramente apriva bocca tranne che per chiedere improvvisamente al suo pedagogo in modo irruente “Che cos’è Dio?”. Non si conosce la risposta, ma è probabile che colui che aveva fatto la domanda non si sarebbe dato pace finché non l’avesse trovata da sé»[9].

Secondo gli affari della famiglia e il temperamento del loro figlio minore, sarebbe stato certamente destinato a divenire abate nel monastero benedettino di Montecassino, una carica degna del suo rango.

Lo scrittore inglese attesta che non è dato sapere con esattezza come si siano svolti i fatti, ma riporta in modo narrativo come i piani della famiglia d’Aquino potessero essere scomposti: «pare che il giovane Tommaso d’Aquino un bel giorno sia entrato nel castello di suo padre e, senza scomporsi, gli abbia annunciato di essere divenuto un frate mendicante del nuovo ordine fondato dallo spagnolo Domenico»[10]. La famiglia, in fondo, desiderava che lui diventasse monaco e cosa impediva quindi una tale decisione?

Il punto fondamentale del dissenso dei familiari riguardava il divario di prestigio sociale tra i vecchi ordini monastici e quelli nuovi, francescani e domenicani, ove questi ultimi non rappresentavano “un buon partito”, dove collocare il figliolo.

Per questa scelta non era in subbuglio solo la sua famiglia, ma dobbiamo immaginare che dovesse esserlo anche l’intera “classe dirigente” che governava l’Europa. «Fu persino chiesto al papa di intervenire con tatto e, a un certo momento, fu avanzata la proposta che Tommaso ricoprisse la carica di abate nell’abazia benedettina pur indossando il saio dei domenicani. A molti questo potrebbe sembrare un compromesso diplomatico, ma non rientrava nella ristretta mentalità medievale di Tommaso d’Aquino. Replicò recisamente che voleva essere un domenicano nell’ordine domenicano e non in un ballo in maschera. Così pare che la proposta diplomatica non abbia avuto seguito»[11].

Sin dalla sua più giovane età, era chiaro che Tommaso sarebbe diventato un grande teologo ed un grande filosofo, ma certamente lo avrebbe potuto fare molto meglio restando un umile frate, tranquillo nel suo studio, piuttosto che divenendo un abate, coinvolto certamente in molte questioni anche mondane e/o nella necessità di fare da intermediario tra numerose dispute, interne e/o esterne al monastero, tutte cose che lo avrebbero distratto dalle sue riflessioni filosofiche e teologiche. Il tutto senza contare quanto la vocazione domenicana fosse infinitamente più adatta alla sua missione di quella benedettina, avendo quest’ultima il focus del proprio carisma nella liturgia e l’altra nella dottrina, nella teologia e nella lotta alle eresie.

Il Generale dei Domenicani essendo al corrente dei tentativi diplomatici di condurre fuori dall’Ordine fra’ Tommaso, pensò di allontanarlo dall’Italia, assieme ad altri frati, inviandolo a Parigi, dove, tra l’altro, si sarebbe dovuto pronunciare in una disputa contro gli oppositori di Aristotele. Questo viaggio venne, però, stroncato da un assalto, durante la partenza, da parte dei fratelli del teologo, che lo rapirono e lo rinchiusero nella torre del castello paterno: la sua prigionia durò circa due anni, durante i quali la famiglia tentò invano di fargli cambiare idea.

«In genere la pecora nera finisce per trarre profitto dai litigi tra le pecore bianche della famiglia»[12], perciò i familiari iniziarono a litigare tra di loro e alla fine non seppero più da che parte stare, fino a quando la madre e le sorelle organizzarono la sua evasione.

Secondo il racconto, proprio le sorelle assicurarono sulla sommità della torre una fune alla quale attaccarono un grande cesto (e doveva essere stato un cesto davvero molto pesante per poter fare da contrappeso), mentre Tommaso si calava giù dall’altra parte della corda. Era finalmente libero e, giunto a Parigi, incontrò Sant’Alberto Magno, che lo porterà con sé a Colonia, dove egli insegnava.

La vita di San Tommaso non è costellata di miracoli; essi sono, però, di provata autenticità, perché era un uomo in vista ed aveva anche molti nemici di grande credibilità che potevano vagliare le affermazioni sue, dei suoi discepoli e dei suoi superiori o, comunque, di chi, a qualunque titolo, diventava testimone dei suoi prodigi. Al di là di una donna miracolosamente guarita dopo aver toccato la sua veste, c’è un evento soprannaturale che lo coinvolse intimamente in gioventù. Quando era a Parigi, i dottori della Sorbona gli chiesero di scrivere un trattato di teologia sulla transustanziazione ed egli redasse, con tutto il peso della responsabilità che sentiva addosso nell’affrontare un tale tema, una spiegazione esauriente e razionale:

«Pregò Iddio più a lungo del consueto affinché lo illuminasse e infine, con uno dei pochi ma sensazionali gesti che hanno contraddistinto le svolte della sua vita, gettò la sua relazione sull’altare ai piedi del crocifisso e lì la lasciò in attesa di giudizi. Poi si volse, scese i gradini dell’altare e si immerse nuovamente nella preghiera. Ma pare che gli altri frati siano rimasti a guardare, il che è molto verosimile perché in seguito affermarono che la figura di Cristo fosse scesa dalla croce davanti ai loro occhi e si fosse fermata in piedi sulla pergamena, dicendo: “Tommaso, ciò che hai scritto sul sacramento del mio corpo è la verità”. Si dice che fu a seguito di questa visione che il suo corpo si è sollevato miracolosamente a mezz’aria»[13].

 

 

Questa vicenda avvenne in modo similare nel monastero domenicano di Napoli, in una fase più matura della sua vita, quando, sempre immerso in preghiera davanti al Crocifisso, si sentì dire: «Tommaso, tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?» Ed egli rispose «Nient’altro che te, Signore!». E dopo il colloquio con Gesù, ebbe una visione che dette una svolta imprevista alla sua vita: da quel momento in poi, non volle più scrivere né dettare altro, lasciando incompiuta anche la sua grande opera, la Summa Theologiae, perché, come confessò a fra’ Reginaldo, «non posso più scrivere. Ho visto cose che tolgono ogni valore a tutti i miei scritti»[14].

Tommaso si spense nel 1274: aveva quasi cinquant’anni; avrebbe dovuto raggiungere Lione per partecipare al Concilio omonimo, per volontà del Papa. Partì per il viaggio con un amico, molto probabilmente fra’ Reginaldo, ma quando si fermò a casa di una delle sorelle fu colto da un misterioso malore; venne poi portato nel monastero di Fossanova, dove trascorse gli suoi ultimi giorni di vita.

«Vale la pena far notare, per coloro che ritengono che lui pensasse troppo poco al lato sentimentale o romantico delle verità della religione, che chiese che gli venisse letto tutto il Cantico dei Cantici dal principio alla fine»[15]. Chissà quali furono le sensazioni e, soprattutto, i richiami spirituali suscitati da quelle poesie, unite alle conoscenze che solo quell’uomo poteva essere realmente consapevole di avere!

«Nell’universo di quella mente c’era un volo circolare di angeli e una rivoluzione di pianeti, di piante o di animali; ma c’era anche un ordine chiaro e preciso di tutte le cose terrene, un potere equilibrato e una libertà controllata, e centinaia di risposte a centinaia di domande di difficoltà morale o economica»[16].

L’anima lasciò il suo corpo e quel turbinio di pensieri si sarebbe improvvisamente arrestato per venire a conoscere improvvisamente tutto.

In conclusione, bisogna ancora dire che Chesterton, a seguito della sua conversione al Cattolicesimo, non nascondeva l’avversità verso i protestanti, come emerge nell’ultimo capitolo, «Il retaggio di san Tommaso».

Ogni ordine monastico, fa intendere Chesterton, poneva l’accento e l’enfasi su una particolare verità di Fede, ad esempio, gli «agostiniani ponevano l’accento sulla teoria dell’impotenza dell’uomo davanti a Dio, dell’onniscienza di Dio sul destino dell’uomo, del bisogno di un sacro timore e di mortificare l’orgoglio intellettuale, al di là delle tesi opposte e corrispondenti del libero arbitrio, della dignità umana o delle opere di bene»[17].

La differenza di enfasi non comporta l’esclusione di una delle verità di Fede a favore esclusivamente dell’altra. «Ma c’è enfasi ed enfasi, e», con Martin Lutero (1483-1546), «si era all’inizio di un’era in cui enfatizzare l’idea di una fazione significava mettersi in netta contraddizione con la fazione opposta»[18].

L’eresiarca tedesco nutriva «orrore e disprezzo per le grandi filosofie greche e per la scolastica che si basava su quelle filosofie. Aveva una teoria che minava tutte le teorie; aveva infatti una sua teologia che era la tomba della teologia. L’uomo non poteva rivolgersi a Dio, ascoltare Dio, né parlare di Dio. Gli era consentito solo implorare pietà con un grido inarticolato e invocare l’aiuto soprannaturale di Cristo, in un mondo in cui tutte le cose naturali erano inutili. La ragione era inutile. La volontà era inutile»[19].

Ad onor del vero si può constatare, come anche Chesterton brillantemente suggerisce, che la teologia di Martin Lutero non sarebbe accettata da un pensatore moderno, neppure protestante; oggi quel tipo di luteranesimo è percepito per come è: lontano dalla realtà. Il “merito” di Lutero, se così si può chiamare, è quello di aver usato consapevolmente la propria opinione soggettiva imponendola con forza agli altri.

«Quando citava un passo della Bibbia inserendovi una parola che nella Bibbia non c’è, si divertiva a rispondere urlando a chi gli faceva domande: “Ditegli che al dottor Martin Lutero sta bene così!”»[20]. Non suona così tanto diverso dalla celebre frase di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831): «se i fatti non si adeguano alla teoria, tanto peggio per i fatti»[21].

Secondo Lutero, nessuna virtù umana può aiutare l’uomo a perseguire il bene e, di conseguenza, ad evitare l’Inferno; questo significa che l’uomo non deve conformarsi ad un ordine stabilito da Dio, la cui regola di condotta si trova nella sua stessa natura, ma, al contrario, nella volontà di Dio, intesa come totalmente arbitraria ed incomprensibile. E come si conosce la volontà di Dio? Nella qualifica di credente o non credente: la giustificazione dell’uomo davanti a Dio non dipende da elementi esterni (le buone opere in risposta alla Grazia divina), ma solo da quelli interni. Questa netta separazione dello spirituale dal materiale produce una separazione dell’interiore dall’esteriore e un’interpretazione teorica della giustificazione secondo cui la Fede è sufficiente per salvarsi, mentre le opere non hanno alcun valore. Si arriva a dire, in modo inevitabile, che la salvezza dell’uomo non dipenderà da ciò che ha fatto all’interno dei limiti tracciati da Dio, ma dalla sua condizione aprioristica di essere buono o cattivo, naturalmente secondo i criteri di Lutero. Non avremo più il criterio del bene in Dio, lo avremo nell’uomo; non avremo più una gerarchia di verità cui l’uomo deve obbedire; avremo, invece, uomini che, fanno ciò che vogliono, saranno buoni o cattivi a seconda che siano credenti o meno, perché il criterio della verità non consiste nell’ordine dell’universo oggettivo di fronte all’uomo, ma nella stessa soggettività umana.

La novità e la modernità di Lutero risiedono nel fatto di ritenere che l’universo non giri attorno all’oggettività stabilita da Dio, ma di affermare che l’universo ruoti attorno alla soggettività di un uomo.

Lutero è altresì noto per aver bruciato la Summa Theologiae. Si dice che ci voglia coraggio a bruciare un libro, mentre occorre in realtà odio viscerale, sentimentale e irrazionale. Egli ha dato alle fiamme un testo che aveva contribuito (e contribuisce tuttora) ad eliminare errori, dubbi, estremismi con una capacità di giudizio raffinatissima ed equilibrata: ha spazzato via o, rectius, si è illuso di poter spazzare via una ricerca monumentale con la sola furia barbarica.

Se il luteranesimo ha distrutto la ragione oggettiva e l’ha sostituita con la suggestione, contribuendo alla confusione delle menti, il XXI secolo dovrebbe aggrapparsi alla teologia razionale tomista, perché, seguendo l’eresia irrazionalistica protestante e le sue conseguenze illuministiche, non solo ha perso la Fede, ma anche la ragione.

 

 

[1] G.K. Chesterton, San Tommaso, Lindau, Torino 2016, p. 26.

[2] Ivi, p. 27.

[3]Ivi p. 31.

[4]Ibidem.

[5] Ibidem.

[6]Thomas Babington Macaulay (1800-1859), storico britannico e politico Whig, noto per il saggio The history of England, intessuto di spirito liberale, che tratta il periodo dalla rivoluzione del 1688 ai primi del XVIII secolo. Quest’opera, dal successo senza precedenti, fu letta dalla società borghese dell’età vittoriana come la giustificazione e l’esaltazione delle proprie conquiste.

[7]Cfr. Ivi, p. 55.

[8]Ivi, p. 39.

[9]Ivi, p. 58.

[10]Ivi, p.59.

[11]Ivi, p. 60.

[12]Ivi, p.73.

[13]Ivi, p.139.

[14]Ivi, p. 144.

[15] Ibidem.

[16]Ivi, p.145.

[17]Ivi, p.196.

[18]Ibidem.

[19]Ivi, p.197.

[20]Ivi. p. 199

[21] La frase non appare in nessun testo hegeliano, ma è stata data dal filosofo tedesco come risposta ad un’obiezione durante una discussione dottrinale nel 1801, quando fu informato che, in contrasto con la sua teoria sostenuta nella Dissertazione di abilitazione all’insegnamento «De orbitis planetarum», l’astronomo don Giuseppe Piazzi (1746-1826) aveva scoperto un pianeta tra Marte e Giove, poi rivelatosi l’asteroide Cerere.

 

 

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