Al Dante di Bergoglio preferiamo quello dei suoi predecessori

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Candor lucis aeternae (Splendore della luce eterna) del successore di Papa Benedetto XVI, dedicata alla memoria di Dante Alighieri, sotto forma di Lettera Apostolica, in occasione delle celebrazioni per il settimo centenario della morte, viene proposta dal Gruppo Editoriale San Paolo. Il documento pontificio, nella versione editoriale, è stato introdotto dall’attuale Presidente del Pontifico della Cultura, cardinale Gianfranco Ravasi; commentato poeticamente da Daniele Mencarelli, Premio Strega; dal commento critico letterario di Natascia Tonelli e dal commento teologico di Giuliano Vigini. Bergoglio è il terzo Pontefice a dedicare un documento ufficiale a Dante Alighieri. Il primo era stato papa Benedetto XV nel 1921 con l’enciclica In praeclara summorum, seguito nel 1965 da papa Paolo VI con la lettera apostolica Altissimi cantus.

Bergoglio si sforza di riprendere i concetti, i giudizi dei suoi predecessori su Dante, per dire che c’è poco o nulla di suo e quel poco che c’è contrasta con il Magistero eterno ed universale della Chiesa e con gli stessi insegnamenti ed ammonimenti del ghibellin fuggiasco. L’autore scrive: «Papa Giacomo Della Chiesa, raccogliendo gli spunti emersi nei precedenti Pontificati, particolarmente di Leone XIII e San Pio X, commemorava l’anniversario dantesco sia con una Lettera Enciclica, sia promuovendo lavori di restauro alla chiesa ravennate di San Pietro Maggiore, popolarmente chiamata di San Francesco, dove furono celebrate le esequie dell’Alighieri e nella cui area cimiteriale egli fu sepolto». Il Papa nativo di Genova, apprezzando le tante iniziative volte a solennizzare la ricorrenza, rivendicava il diritto della Chiesa, «che gli fu madre», di essere protagonista in tali commemorazioni, onorando il «suo» Dante. Già nella Lettera all’Arcivescovo di Ravenna, Monsignor Pasquale Morganti, con la quale approvava il programma delle celebrazioni centenarie, Benedetto XV motivava così la sua adesione: «Inoltre (e ciò è più importante) si aggiunge una certa particolare ragione per cui riteniamo che sia da celebrare il suo solenne anniversario con memore riconoscenza e con grande concorso di popolo, per il fatto che l’Alighieri è nostro. Infatti, chi potrà negare che il nostro Dante abbia alimentato e rafforzato la fiamma dell’ingegno e la virtù poetica traendo ispirazione dalla fede cattolica, a tal segno che cantò in un poema quasi divino i sublimi misteri della religione?».

In un momento storico segnato da sentimenti di ostilità alla Chiesa, il Pontefice ribadiva, nell’Enciclica citata, l’appartenenza del Poeta alla Chiesa, «l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro»; anzi, affermava che la sua opera, pur essendo espressione della «prodigiosa vastità e acutezza del suo ingegno», traeva «poderoso slancio d’ispirazione» proprio dalla fede cristiana. Per questo, proseguiva Benedetto XV, «in lui non va soltanto ammirata l’altezza somma dell’ingegno, ma anche la vastità dell’argomento che la religione divina offerse al suo canto». E ne tesseva l’elogio, rispondendo indirettamente a quanti negavano o criticavano la matrice religiosa della sua opera: «Spira nell’Alighieri la stessa pietà che è in noi; la sua fede ha gli stessi sentimenti. Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore». L’opera di Dante – proseguiva il Pontefice – è un eloquente e valido esempio per «dimostrare quanto sia falso che l’ossequio della mente e del cuore a Dio tarpi le ali dell’ingegno, mentre lo sprona e lo innalza». Per questo, sosteneva ancora il Papa, «gli insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme» possono servire «quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo» e particolarmente per studenti e studiosi, poiché «egli, componendo il suo poema, non ebbe altro scopo che sollevare i mortali dallo stato di miseria, cioè dal peccato, e di condurli allo stato di beatitudine, cioè della grazia divina».

Al VII Centenario della nascita, nel 1965, si collegano, invece, i diversi interventi di Paolo VI. Il 19 settembre, egli fece dono di una croce dorata per arricchire il tempietto ravennate che custodisce il sepolcro di Dante, fino ad allora privo «d’un tale segno di religione e di speranza». Il 14 novembre inviò a Firenze, affinché fosse incastonata nel Battistero di San Giovanni, un’aurea corona d’alloro. Infine, alla conclusione dei lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II, volle donare ai Padri Conciliari un’artistica edizione della Divina Commedia. Ma soprattutto onorò la memoria del Sommo Poeta con la Lettera Apostolica Altissimi cantus, in cui ribadiva il forte legame tra la Chiesa e Dante Alighieri: «Che se volesse qualcuno domandare, perché la Chiesa Cattolica, per volere del suo visibile Capo, si prende a cuore di coltivare la memoria e di celebrare la gloria del poeta fiorentino, facile è la nostra risposta: perché, per un diritto particolare, nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire della fede cattolica, perché tutto spirante amore a Cristo; nostro perché molto amò la Chiesa, di cui cantò le glorie; e nostro perché riconobbe e venerò nel Pontefice Romano il Vicario di Cristo». Dalla lettura del testo bergogliano, però, si evince che anche Giovanni Paolo II e Papa Ratzinger, sia pure con riferimenti impliciti, non mirati ad eventi riguardanti la vita  del sommo poeta, nei loro documenti papali, hanno ricondotto ogni loro pensiero a colui che seppe declinare la teologia con la prassi. La prassi con la mistica. Con la robusta vocazione del viaggiatore non solitario, non improvvisato, ma accorto, lucido, conscio dei suoi passaggi allegorici tra il bene e il male: tra l’eterno e l’immanente. Tra le dimensioni orizzontali umane e le visioni verticali a cui far tendere l’uomo, a cui ogni uomo deve tendere. Dante non è l’uomo che si deifica o si deizza. Non è il poeta che esalta l’uomo rendendolo Dio, come vorrebbe una certa vulgata corrente, mistificatrice di valori, contenuti, dottrine. In Dante, Dio viene confermato come il dispensatore della sicura e non della facile misericordia. La misericordia dantesca, in conformità con quella divina, è quella che passa attraverso l’espiazione, il pentimento, il rendimento di grazie, la conversione. Una lettura critica, seria, puntuale  della Commedia non ce la fornisce, purtroppo, Bergoglio ma i suoi predecessori, coloro i quali sono stati, continuano e continueranno ad essere i custodi del Depositum fidei. Giovanni Paolo II, come Paolo VI, sottolineava la genialità artistica: l’opera di Dante è interpretata come «una realtà visualizzata, che parla della vita dell’oltretomba e del mistero di Dio con la forza del pensiero teologico, trasfigurato dallo splendore dell’arte e della poesia, insieme congiunte». Il Pontefice si soffermava, poi, a esaminare un termine chiave dell’opera dantesca: «Trasumanare. Fu questo lo sforzo supremo di Dante: fare in modo che il peso dell’umano non distruggesse il divino che è in noi, né la grandezza del divino annullasse il valore dell’umano. Per questo il Poeta lesse giustamente la propria vicenda personale e quella dell’intera umanità in chiave teologica». Benedetto XVI ha spesso riproposto l’itinerario dantesco, attingendo dalle sue opere spunti di riflessione e di meditazione. Ad esempio, parlando della sua prima Enciclica Deus caritas est, partiva proprio dalla visione dantesca di Dio, in cui «luce e amore sono una cosa sola» per riproporre una sua riflessione sulla novità dell’opera di Dante: «Lo sguardo di Dante scorge una cosa totalmente nuova […]. La Luce eterna si presenta in tre cerchi ai quali egli si rivolge con quei densi versi che conosciamo: “O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!” (Par. XXXIII, 124-126). In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e di amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. […] Questo Dio ha un volto umano e – possiamo aggiungere – un cuore umano». Il Papa evidenziava l’originalità della visione dantesca nella quale si comunica poeticamente la novità dell’esperienza cristiana, scaturita dal mistero dell’Incarnazione: «La novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano, anzi ad assumere carne e sangue, l’intero essere umano». Concludendo, un Papa che esilia i suoi avversari e chi contesta il suo operato, poteva fare a meno di celebrare Dante, l’esiliato cattolico per eccellenza.

 

 

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