Sostituzione della vecchia Cattedra vescovile con una nuova nel Duomo di Agrigento
L’episodio – l’ennesimo episodio – di “adeguamento” di arredi sacri alla modernità postconciliare ha colpito questa volta nel Duomo di Agrigento, con la sostituzione della cattedra vescovile con una nuova, che interpreta la retorica minimalista nella sua più squallida forma. Il primo aspetto dell’operazione – sconcertante di per sé, per l’incredibile bruttezza del manufatto – sta nella manifestazione di arroganza della curia, la quale si dimostra sodale con le solite lobbies dell’arte contemporanea, nella versione «arte povera» ovvero IKEA; si gioca così sull’equivoco di materiali dimessi (e scadenti) e di una falsa essenzialità venduta a caro prezzo, con tutto il circo di progettisti e curatori. È una casistica ampia e ben nota, che va dalle bruttissime chiese a firma archistar, agli “adeguamenti” liturgici che spaziano dal pietrone grezzo, al lunapark, all’arredo bagno (come in questo caso). Vien però da riflettere sul fatto che ogni volta tali operazioni abbiano incontrato lo sconcerto e l’aperta protesta di gruppi di fedeli, mai interpellati in fase di progettazione e decisione, e che ciononostante nel passare degli anni tali episodi si ripetano.
La bellezza gloriosa degli edifici religiosi è un patrimonio di tutti, non solo dei credenti; le nostre città si raccolgono intorno ad essi, e da essi prendono forma, a testimoniare non solo la storia cristiana, ma l’eterna e misteriosa aspirazione dell’uomo ad innalzarsi al di sopra della sua stessa storia. Che gli edifici e le opere d’arte contenute siano espressione del prestigio e del potere vigenti in certi luoghi e contingenze storiche, non muta la loro testimonianza del sacro –gloria, bellezza, coralità- che vale in ogni epoca. Le cattedrali sono immagine di comunità umane e di slancio metafisico, luoghi atemporali, forma del Bene e del Bello, anche per chi non ha fede. La loro potenza è tale da sopportare la museificazione, la contaminazione: anche spogliate e profanate, comunicano una memoria profonda. Per questo ogni intervento in esse ha un valore simbolico, e ove il manufatto è in legame col rito, ha sempre valenza artistica, e la sua immagine e forma non sono mai meramente strumentali, utilitari. Rinunciando esplicitamente alla bellezza, al decoro, all’armonia, optando per una forma stridente col contesto, si vuole trasmettere quindi un messaggio, e lo si trasmette in effetti. Quale? Non certo quello della modestia e della povertà (visto che si è speso per distruggere e rifare ex novo), né quello dell’efficientismo pastorale proclamato dagli uffici della curia; è bensì quello di una provocazione, di una dissonanza voluta, che crea imbarazzo e disagio; ed insieme il conformismo ossequiente all’estetica modernista, che si rispecchia nel vuoto, nel materiale, nel tecnologico, nel seriale. Si tratta quindi dell’adesione al relativismo che tende a destrutturare e desacralizzare il passato banalizzandolo con incongrui accostamenti, e in tal modo dare accesso e credibilità ai sottosistemi locali dell’arte e architettura “contemporanee”. Lo squallore esibito non è semplicità, anzi è una perversione estetica ed intellettuale, una falsificazione, tipica dell’arte concettuale; ed in effetti la cattedra di Agrigento appare predisposta per qualche “installazione” dall’esito grottesco.
Decorazioni, al centro dell’abside, dell’antica Cattedrale di San Gerlando ad Agrigento
Quale sia il significato filosofico di tale estetica lo definiva già nel 1980 Jacques Ellul (1912-94) nel suo testo L’empire du non sens (L’impero del non senso)[1] in cui analizzava l’arte moderna:
«Così l’arte rinforza, conferma la realtà della società tecnica: ben lungi da essere una protesta, ovvero il processo di una presa di coscienza, chiude l’ultima porta, attestando dall’interno del partecipante la stessa realtà tecnica che gli resta ancora esterna. Produce l’illusione del reale e dà realtà all’illusorio. Impedisce all’uomo di comprendere il mondo tecnico facendolo invece penetrare in lui, e nello stesso tempo fissa l’uomo sull’apparenza e l’insignificanza. (…)
Ora, tale messa in discussione di ogni significato si accoppia esattamente (e non può essere altrimenti) ad un perfetto conformismo dell’ambito dell’azione e del comportamento. (…)
L’arte è complice, facendo penetrare più profondamente, interiorizzando ciò che la tecnica fa dell’uomo, evitando che l’uomo lo percepisca come scandalo, producendo giustificazioni idealistiche alla situazione reale, rivestendo di libertà i comportamenti più conformisti» .
Gli scempi operati nelle antiche chiese con l’immissione di manufatti volutamente stridenti, sono un non-sense, in quanto offendono il gusto, la razionalità e la professionalità nella gestione del patrimonio artistico; ma lo sono anche perché affermano ed evocano materialmente un’assenza, un vuoto, una spoliazione, la desacralizzazione degli spazi, delle immagini, del rito.
Tacitamente, ma talvolta esplicitamente, s’intende con ciò criticare la magnificenza, la ricchezza e la bellezza degli edifici sacri, applicando al passato letture sociologiche destrutturanti meramente profane; per questa via gli “adeguamenti”, gli scempi bizzarri, acquistano un significato simbolico sproporzionato alla loro banalità (com’è il caso dell’ “arredo bagno” di Agrigento), ma che giustamente viene avvertito come vilipendio e scandalo.
[1] Jacques Ellul, L’Empire du non-sens, L’art et la société technicienne. Paris: Press Universitaires de France, 1980.