Verba manent… Qualche (minima) riflessione sul lessico di San Tommaso d’Aquino

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I settecento anni dalla canonizzazione di San Tommaso d’Aquino (1225-1274) ci offrono l’occasione per una seppur minima riflessione sul lessico latino impiegato dal Santo. Non tanto un’analisi della sua prosa latina, compito che spetta più ad un medievista che non ad un filologo classico, quanto una prima ricognizione di come termini del latino classico (spesso esemplati sul greco dei filosofi) siano passati, talora con significati anche differenti, attraverso autori diversi[1], per collocazione storica e per tematiche trattate, fino ad arrivare al Santo di Aquino che li ha saputi adattare alle sue necessità.

Si tratta – per ovvie ragioni – di una rassegna alquanto ristretta, ma che potrà essere ampliata, che verte sulle seguenti tre coppie di vocaboli: Ens/Essentia, Actus/Potentia, Natura/Gratia[2].

 

Ens

 

Il termine non è presente in modo autonomo nel ThLL in quanto verrà esaminato all’interno del lemma sum (“essere”), non ancora prodotto, trattandosi – come sa chiunque abbia un minimo di competenza della lingua latina – del participio presente di tale verbo.

EM (p. 169) glossano invece la forma in modo autonomo osservando che *ens è participio presente “teorico” di sum,[3] in quanto di esso non si hanno testimonianze nella lingua latina classica. Unica citazione è quella del grammatico Prisciano (?-512/527), il quale afferma: Graeci autem participio utuntur substantivo («i Greci invece usano il participio come sostantivo»)[4], aggiungendo che chi elaborò questa riflessione grammaticale fu Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C.) che, nel suo (per noi perduto, tranne pochissimi frammenti) testo grammaticale dal titolo De analogia, lo avrebbe ipotizzato, per analogia col greco (che ha il participio presente del verbo ειμί/eimì: ων/oon, m., ουσα/ousa, f., όν/on, n.), partendo dalle forme esistenti come potens, -ntis (participio presente di possum/potes, composto di sum). Altra unica testimonianza presente, per *ens come per il suo plurale neutro sostantivato *entia, sarebbe quella di Marco Fabio Quintiliano (35-96)[5]: tuttavia questi due passi sono di dubbia interpretazione, in quanto la “vulgata lectioatque entia sarebbe da correggere in et queentia.[6] Non ci sono termini dunque in latino classico per tradurre i participi greci sostantivati ων/ho oon, τό όν/to on (sing.) e τά όντα/ta onta (plur.). Le stesse informazioni ci vengono date da F (II,178), se non che egli prende per buona la lezione quintilianea atque entia, corretta solamente in tempi recenti.

Anche in età medievale il termine ens è molto raro: in DC (III, col. 88) lo troviamo glossato come pro existens (senza alcun valore religioso), presente nella Charta Pisanorum Capitanei, apud Guesnaium in Annalibus Massiliensibus p. 397.

Dunque l’uso di Ens, sostantivato con valore teologico-religioso, è tipico della prosa dei teologi scolastici, come Giovanni Duns Scoto (1265/1266-1308) e, ovviamente, San Tommaso, che lo usano per tradurre il greco ο ων/ho oon (“colui che è”) e τό όν/to on (“ciò che è”) [cfr. Ex. 3, 1-4, 17, nella trad. dei lxx ο ων/ho oon]

 

Essentia

 

Equivalente al greco ουσία/ousìa, chiaramente dalla stessa radice οντ-/ont- del verbo essere (cfr. supra per quanto attiene al participio presente di ειμί/eimì).

EM (pag. 202) lo analizzano come termine filosofico, che sarebbe stato elaborato da Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.)[7], sebbene Quintiliano ne assegni l’origine o ad un tal Plauto o ancora ad un tale Sergio Flavo (ma a questo proposito cfr. nota 6). Il termine è stato costruito a partire dal verbo esse, a somiglianza di catene come pati/patiens/patientia e sapere/sapiens/sapientia, anche se non è testimoniato il participio *essens, ricostruito tuttavia per analogia. È servito di modello a substantia[8] (cfr. Sant’Agostino, in ThLL V2, 1875, 35), attestato a partire da Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) per sostituire natura, vocabolo considerato troppo generico ed impreciso.

Essentia si trova in Lucio Apulèio Madaurense (125-170) (de Platone et eius dogmate), ripreso poi dai teologi, creando poi da esso i derivati essentialis, essentialiter, essentialita ed il raro essentitas.

F (II, 198)[9] riporta le testimonianze di Ambrogio Teodosio Macrobio (385-430) (Somnium Scipionis 12): Et haec est essentia, quam individuam, eandemque dividuam Plato in Timaeo expressit[10]; di Apuleio (de Platone et eius dogmate 1) Τάς ουσίας/Tas ousias quas essentias dicimus, duas esse ait[11]; mentre di Cicerone si dice che pro essentia fere naturam dixit: aliquando tamen et illa voce usus est[12], secondo la testimonianza di Seneca, che (epistulae ad Lucilium 58) dichiara: «cupio, si fieri potest propitiis auribus tuis, essentiam dicere: sin minus, dicam et iratis. Ciceronem auctorem huius verbi habeo, puto locupletem: si recentiorem quaeris, Fabianum, disertum et elegantem […] Quid enim fiet, mi Lucili? quomodo dicetur ουσία/ousìa, res necessaria, naturam continens, fundamentum omnium? Rogo itaque, permittas mihi lioc verbo uti»[13].

Infine Gaio Sollio Sidonio Apollinare nell’epistola premessa al Carme 14, dice: «Lecturus es hic etiam novum verbum, idest essentiam, sed scias hoc ipsum dixisse Ciceronem; nam essentiam […] licet enim novis rebus nova nomina imponere. et recte dixit»[14]; aggiungendo poi, nello stesso carme, che il termine fu elaborato per primo da Platone: «Invenit hic (sc. Plato) princeps, quod prima essentia distet a summo […] bono («Lo trovò costui per primo, poiché la prima essenza dista dal sommo […] bene»).

Tra i derivati ricordiamo come essentialiter si trovi (col valore di “secundum essentiam”) in Sant’Agostino (354-430) (de Trinitate 7,2): «Sapientia essentialiter intelligitur» («La sapienza si coglie nella sua essenza»).

 

Actus

 

EM (pag. 15) lo collega – come evidente – ad agere, da una radice i. e. *ag-/ak-, che troviamo identica nel greco άγω/ago, ma anche in altre lingue indo-europee, come il sanscrito, l’armeno e l’irlandese.

I suoi equivalenti greci sono vari: πράξις/práxis, διοίκησις/dioíkesis, έλασις/hélasis, ενέργεια/enérgheia, πραγματεία/pragmatéia, ma per quanto ci riguarda in questo momento esso è usato per tradurre l’aristotelico ενέργεια/enérgheia (formato dalla preposizione εν/en più il sostantivo έργον/érgon, «opera, lavoro, fatica», da cui l’italiano «energia»), letteralmente quindi «immettere un’azione, un’attività», avendo quindi in sé l’idea dell’agire, mentre il latino actus (ed actio) rimanda più a quella dello «spingere, muovere, condurre», ma con valore di passivo essendo in origine un participio passato.

Sia il ThLLI, coll. 449-454 che F (I, 39) danno gli stessi valori ed esempi (in maggior numero ThLLI, più limitati F): negli autori classici manca il valore di atto vs. potenza, prevalendo quelli di: azione, fatto compiuto, attività, azione scenica (> atto di commedia), azione legale, procedimento oratorio, discorso. Troviamo quindi il valore di «movimento» (motio, impetus, impulsus), come in Tito Lucrezio Caro (98/94-55/50 a.C.) De rerum natura III,192, Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) Eneide XII, 687, Seneca Agamemnon 432 (actu levi: con movimento leggero), Gaio Petronio Arbitro (?-66) Satyricon 136, Gaio Svetonio Tranquillo (69-122) Vita Claudii 30 (in quantulocumque actu: in ogni minimo gesto); allo stesso modo lo troviamo usato anche nei cristiani: Aurelio Prudenzio Clemente (348-413) peristefanon 10,971 e Paolino di Nola (352-431) carmina 18,383 (numinis actu: con la spinta del dio).

In senso traslato si usa, nel lessico della retorica, per indicare o il modo di pronunciare un discorso oppure la suddivisione di un’opera nelle sue parti (per es.: gli atti di una commedia); si ha poi l’uso relativo a ciò che si deve fare (in it. «le azioni, gli atti»), anche se in questo caso è preferito il suo sinonimo actio, oppure l’uso giudiziario (cfr. in it. non solo «gli atti», ma anche il termine «attore»); si passa poi al suo valore più comune, cioè quello dell’italiano «azione» (de rebus faciendis: le cose da fare; agendi ratio: il modo di agire).

L’uso dunque di actus col valore di «condizione, in cui una persona o una cosa si trovano, dopo aver raggiunto il proprio completamento», evidentemente sottolineando il movimento (agere) per cui essa passa, appunto, dalla «potenza all’atto come cosa compiuta», traducendo cioè l’aristotelico ενέργεια/enérgheia, va cercato, dopo l’età classica e post-classica, nei traduttori latini di Aristotele (384-322 a.C.), in primis Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (475/477-524/526) e poi nelle opere dei teologi scolastici.

 

Potentia

 

EM (pag. 528) indicano il termine come meno usato di potestas, soprattutto in età imperiale; la sua derivazione è ovviamente, come per altre forme sostantivali, quali frequentia, sequentia, absentia etc., dal participio presente potens, -ntis (< possum < potis + sum: la forma base potis è dall’i. e. *poti- «capofamiglia, capo di un gruppo»; cfr. skr pátih e l’avestico paitis, «maestro, sposo», da cui anche il greco πόσις/pósis, «sposo»). Il suo corrispondente greco è δύναμις/dýnamis, di etimologia oscura: secondo B si può mettere al pari del skr dúvah («rispetto, omaggio»), dell’irl. dun («cittadella»), del gallico -dunum (suffisso toponomastico: Lugdunum, Augustodunum) e forse anche del latino durare; secondo C invece esso deriverebbe da un tema *dua-/*dFa esprimente la nozione di «durata», e quindi di «resistenza, forza».

F (III, 484) glossa il vocabolo come sinonimo di vis e di potestas, con esempi in Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.), Virgilio (Georgiche), Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 17/18 d.C.) (Amores e Metamorfosi), Celso (? – dopo il 178), mentre non vi sono esempi di autori arcaici (tranne forse un passo, ma di lettura incerta, della Vidularia di Plauto) a conferma dell’origine alquanto tarda del termine. Non si trova, negli autori classici, il valore filosofico-aristotelico e l’unico esempio che si possa avvicinare al significato filosofico (col valore di facultas) lo troviamo in Giustino (100-163/167) (epitome XII): «Alexander, vir supra humanam potentiam magnitudine animi praeditus» («Alessandro, uomo dotato di grandezza d’animo ben oltre le facoltà umane»).

Nel ThLL (X/2 coll. 291 sgg.) troviamo altri esempi, specie nei filosofi, dell’uso del termine nel senso di «qualità»: Seneca, de clementia 1,26,5 («praecipuum ornamentum principis est cives servavisse; haec divina potentia est: gregatim ac publice servare»; «principale ornamento di un regnante è aver salvato i cittadini; questa è una qualità divina: salvarli tutti insieme e pubblicamente») e de beneficiis 4,19,1 («Epicure, deum inermem facis […] omnem detraxisti potentiam»; «O Epicuro, tu rendi inerme il dio […] lo hai privato di ogni qualità»), oltre che quello di «capacità»: Tito Livio ab urbe condita 21,54,9 («ut vix armorum tenendorum potentia esset»; »affinché vi fosse la capacità di reggere le armi»); Seneca dialogi 6,7,4 («ferrum in omni corpore exhibebit secandi potentiam»; «il ferro in ogni corpo mostra la sua capacità di tagliare»).

Giungiamo infine a quanto più ci interessa, cioè potentia impiegata, per analogia, in opposizione al greco ενέργεια/enérgheia (actus/atto), secondo quanto ci viene detto sempre dal ThLL (ad l.): «pertinet ad condicionem, qua quid fieri vel exsistere potest […] technice in philosophia et theologia respicitur ut dynamis Aristotelis, cui opposita est energheia […] syn. vestigium, semen, vis, virtus, opp. actio, actus, opus»[15]. Un esempio interessante è quello che troviamo in Boezio, de institutione arithmetica 1,20 p.44,16: «prima unitas virtute atque potentia, non etiam actu vel opere […] perfecta est»; «La prima unità per valore e potenza, non anche per atto o azione […] è perfetta». Ancora negli scrittori cristiani troviamo il termine nel senso di «potenza di Dio» o «potere dei demoni»; cfr. Sant’Agostino de civitate Dei 12,26 p. 553,15: «Dei occulta potentia cuncta penetrans […] facit esse, quidquid […] est» («L’occulta potenza di Dio, penetrando ogni cosa fa sì che esista tutto ciò che esiste»).

 

Natura

 

EM (p. 430) la fanno derivare da natus con vocalizzazione simile a quella presente in statura (< status) ed in cultura (< cultus). Se ne danno poi vari significati, tra cui quelli che a noi più interessano sono quelli, filosofici, di 1) ordine naturale, carattere naturale (gr. φύσις/phúsis, dalla radice i. e. *bhu-: «crescere, spingere, svilupparsi»), presente nella formula tipica dei primi trattati fisico-filosofici di natura rerum (cfr. il poema di Lucrezio ed in greco i vari testi intitolati περί φύσιος/perì phúsios) e di elemento, sostanza (in greco sempre φύσις/phúsis). Per completare l’aspetto etimologico della questione, c’è da osservare che mentre in greco prevale l’aspetto transitivo del «generare» (significato principale del verbo φύω/fuo, che solo al medio può acquisire quello di «nascere»), in latino invece appare prevalente il concetto intransitivo del «nascere» (natura < [g]natus, da una radice i. e. *ye-/yo-, «generare, nascere», che troviamo in termini quali gignere (> gnatus, forma arcaica testimoniata in Plauto), genus, gens, e nel greco γένος/ghénos, «stirpe»).

F (III, 150), dopo la definizione: «est principium et causa efficiens omnium rerum naturalium, quo sensu a Veteribus Philosophis cum Deo confundebatur» («è il principio e la causa efficiente di tutte le cose naturali, valore oer cui dai filosofi antichi era confusa con Dio»); cfr. Cicerone de natura deorum I,8 e II,22 e 32 elenca anch’egli i vari significati del termine, vale a dire: 1) il mondo, o l’universo (Cicerone de natura deoum. I,14: «Cleanthes autem tum ipsum mundum deum dicit esse, tum totius naturae menti atque animo hoc nomen tribuit»; «Cleante[16] poi sia dice che il mondo stesso è dio, sia attribuisce questo nome all’intelligenza ed alla mente di tutta quanta la natura»); 2) in particolare si indica ciò di cui qualcosa è composto nella sua interiorità e nella sua essenza, quindi col valore di «essenza», avvertendo «come dicono i filosofi» («ut Philosophi loquuntur»), citando Lucrezio de rerum natura II,232, ed allo stesso modo come «sostanza», nuovamente «ut Philosophi loquuntur»; cfr. Cicerone Tusculanae disputationes I.10 («Aristoteles cum quattuor genera illa principiorum esset complexus, e quibus omnia orirentur, quintam quandam naturam censet esse, e qua sit mens»)[17]; poi 3) la proprietà, oppure la forza e la qualità e la potenzialità insita in alcunché (Cicerone Somnium Scipionis: «Quod autem animal est, id motu cietur interiore, et suo. Nam haec est natura propria animae, et vis»; «Ciò che poi è l’essere vivente, questo è mosso da un movimento interiore, c suo proprio. Infatti questa è la natura propria dell’anima, e la sua qualità») o anche le qualità naturali (Virgilio, Georgiche IV, 149: «Nunc age, naturas apibus quas Juppitcr ipse addidit, expediam»; «Orsù, spiegherò le caratteristiche che alle api Giove stesso diede»); 4) la struttura, il luogo; 5) egualmente indole, abitudini, carattere, costumi, inclinazione naturale (Cicerone de divinatione: «uno et eodem temporis puncto nati dissiniiles et naturas, et vitas, et casus habent»; «i nati in un solo ed unico momento hanno differenti sia le nature, sia le vite, sia le situazioni»); 5) sostanza naturale e insieme di un qualsivoglia corpo (Cicerone de natura Deorum II,57: «aures duros et quasi cornicolos habent introitus, multisqiue cum flexibus, quod his naturis relalus ampliticatur sonus»; «le orecchie hanno dei passaggi rigidi e per così dire cornei, e con molte giravolte, poiché a questi corpi il suono, una volta riportato, venga amplificato»); 6) la legge divina ed umana (Cicerone de officiis III, 5: «atque hoc multo magis exigit ipsa naturae ratio, quae est lex divina, et humana, cui parere qui velit, numquam committet, ut alienum appetat»; «e molto più esige ciò la ragione stessa della natura, cioè la legge divina, e quella umana, alla quale chi voglia obbedire, non farà mai in modo di desiderare ciò che è di un ut altro»). Abbiamo poi alcune formule usuali, quali «natura insitum est»/«è connaturato» (Cicerone pro Sulla 30), «praeter naturam»/«oltre la natura» (Terenzio Adelphoe V,5,4), «secundum naturam vivere»/«vivere secondo natura» (Cicerone de finibus V,9), natura, al caso ablativo, usato in modo assoluto: «per natura, naturalmente» (Plinio sr. Naturalis Historia 7,19), «natura sua»/«secondo la sua natura» (Tacito Historiae IV, 14).

Negli autori cristiani (in ThLL IX/1 coll. 156sgg) compare ovviamente l’idea del contrasto tra natura buona e malvagia, come in Tertulliano adversus Hermogenem 13,2: «si dabimus illi materiae aliquid etiam boni germinis, iam non erit uniformis naturae, id est malae in totum, sed etiam tum duplex, id est malae et bonae naturae» («se daremo a quella materia anche qualche buon germe, non ci sarà più uniformità di natura, cioè malvagia completamente, ma a quel punto duplice, cioè una natura malvagia e buona»), ma anche la contrapposizione tra natura e società, cfr. Mario Vittorino rhetorica 1,2 p.164,31 «quaeritur, utrum homines ad has rationes vivendi per naturam deducti sint an praeceptis videantur adducti» («si ricerca se gli uomini a queste abitudini di vita sembrino essere stati portati per natura o da regole»), e che la natura possa coincidere con la saggezza, ancora Mario Vittorino rhetorica 1,5 p.172,18: «cuncta […] per naturam, id est per sapientiam, facile posse cognosci» («ogni cosa […] attraverso la natura, cioè la sapienza, si può conoscere facilmente»). Abbiamo poi l’uso di questo termine per ciò che pertiene a Dio: Sant’Ambrogio de fide 1,19,129: «si de nomine substantiae aut naturae Dei voluerint dicere» («se volessero parlare del nome della sostanza o della natura di Dio»); Tertulliano de corona 6,2 «ipsum Deum secundum naturam prius novimus» («conosciamo Dio stesso dapprima secondo la natura») e adversus Marcionem 2,6,4 «bonus natura Deus solus» («solamente Dio è buono per natura»); Novaziano  de trinitate 5,5 «discordia in Deo vel ex natura vel ex vitio non potest esse» («in Dio non ci può essere la discordia né per natura né per colpa»); Lattanzio ira 2,8 «alii […] iram tollunt, gratiam relinquunt Deo: naturam enim summa virtute praestantem ut non maleficam, sic beneficam esse debere» («alcuni […] eliminano da Dio l’ira, lasciano la grazia: la natura infatti è così eccezionale per la sua somma virtù che non deve essere malefica, ma benefica»); ed alla SS. Trinità: Mario Vittorino adversus Arium 4,10 l. 35 «hoc est […] simul substantiam habens paremque exsistendi vim atque virtutem eandemque substantiae naturam» («cioè […] avendo insieme la sostanza ed una pari capacità e virtù di esistere ed una natura uguale della sostanza»); Sant’Agostino contra Arianos 36 l. 17 «contra eorum errorem graeco vocabulo omo-ousios defendimus patrem et filium et spiritum sanctum, id est, unius eiusdemque substantiae, vel ut expressius dicatur, essentiae […]; quod planius dicatur: unius eiusdemque naturae»[18]; Vincenzo di Lérins commonitorium 13,6 «alia est persona patris, alia filii, alia spiritus sancti, sed tamen patris et filii et spiritus sancti […] una eademque natura» («una è la persona del Padre, altra del Figlio, altra dello Spirito Santo, ma tuttavia una sola ed uguale natura del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»).

 

Gratia

 

EM (pag. 282, s. v. gratus) parlano di una radice bisillabica i. e. appartenente alla sfera lessicale religiosa (cfr. skr gir, «canto di lode», e guriáh, «celebrato»); suo equivalente greco è χάρις/cháris, in cui prevale tuttavia l’idea del «rallegrarsi, godere» (cfr. il verbo χαίρω/cháiro, «mi rallegro, gioisco») su quella del «ringraziare, beneficare».

Quanto ai significati, il primo è quello astratto di «riconoscenza»; seguono poi quelli concreti di «gesto di favore» e di «riconoscenza»; segue infine quello, nuovamente astratto, di «bellezza», usato nel latino ecclesiastico traducendo il greco χάρισμα/chárisma.

F (II,393) la definisce come «quae gratos et amabiles facit. Frequentissime sumitur pro favore, amore, benevolentia» («che rende graditi ed amabili. Molto frequentemente si usa per favore, amore, benevolenza»), valore – quest’ultimo – che troviamo in Cicerone (de natura deorum I: «Deinde, si maxime talis est deus, ut nulla gratia, nulla hominum caritate teneatur»; «Allora, se soprattutto dio è tale, per cui non è obbligato da alcuna grazia, alcun amore per gli uomini»); spesso tuttavia è impiegata per «mutua amicizia, concordia» (Cicerone ad familiares VIII,14: «Nam mihi cum hominibus his et gratia, et necessitudo est»; «Infatti io provo per questi uomini sia favore sia familiarità»); l’espressione «habere in gratia» vale «amare, considerare amico» (Suetonio Vita Domitiani 11: «consularem virum condemnaturus, in eadem, vel etiam in maiore gratia habuit»; «in procinto di condannare un ex console, lo ebbe nel favore medesimo, o anche più grande»), mentre «esse in gratia» significa «essere gradito, essere amico» (Cicerone verrine 2,17: «ut Senatus cum populo Romano et in laude et in gratia esse possit»; «affinché il Senato possa essere presso il popolo Romano sia lodato sia amico»); talora viene usata per «autorità, potenza, che si acquista col favore e l’approvazione» (Cicerone ad familiares XIII,29: «omnia quae potui in hac summa tua gratia ac potentia a te impetrare»; «tutto ciò che ho potuto ottenere da te per il tuo sommo potere ed autorità»; Svetonio Vita Augusti 35: «senatores per gratiam et praemium allecti»; «i senatori attirati sia col potere che con premi»). Talora assume il valore di «beneficio, che si dà ad altri, dal quale deriva appunto la gratitudine» (Cicerone ad familiares II,6: «nullam esse gratiam, quam non vel capere animus meus […] illustrare posset» «non c’è alcun beneficio, che il mio animo non possa o contenere […] o illustrare»; Sallustio de bello Jugurthino 119: «quod polliceatur, populum Romanum […] non in gratia habiturum»; «poiché assicurava che il popolo Romano […] non lo avrebbe stimato»). Può anche significare «indulgenza, perdono, venia» (Aulo Gellio Noctes Atticae XI. 8: «ideoque veniam gratiamque malae existimationis […] postulavit»; «perciò chiese perdono e indulgenza della stima malevola»), mentre «facere gratiam» vale «rimettere, condonare» (Tito Livio ab urbe condita III. 56: «omnium tibi, qnae impie nefarieque per biennium es ausus, gratiam facio»; «ti condono tutto ciò che in un biennio ti sei permesso di fare in modo empio e colpevole»; Plauto Rudens V. 3.38: «iurisiurandi volo gratiam facias»; «voglio che tu  mi rimetta il mio giuramento»).

Per l’uso del termine presso gli scrittori cristiani si può vedere il ThLL VI/2 coll. 2226sgg (pars altera, dedicata appunto solo ai cristiani). Il primo valore presente è quello di «favor dei in homines» («favore di Dio verso gli uomini»), cfr. Paciano di Barcellona de baptismo 3 («quid est gratia? peccati remissio, id est donum, gratia enim donum est»; «cos’è la grazia? la remissione del peccato, cioè un dono, la grazia è infatti un dono»); San Gerolamo epistulae 21, 2, 4 («gratia, quae non ex merito retributa, sed ex donante concessa est»; «la grazia, che non è attribuita per merito, ma concessa da chi la dona»). Si passa poi a considerare il termine come «status hominis dono Dei fruentis» («condizione dell’uomo che gode di un dono di Dio»), in genere espresso con la formula «gratia apud Deum/coram Deo» («trovar favore presso Dio»); cfr. le versioni Itala (in Tertulliano adversus Praxean 14) e Vulgata exod. 33, 13 («Moyses  ad dominum: si inveni gratiam coram te [in conspectu tuo, Vulg.]»); in particolare poi per indicare alcuni specifici doni di Dio (in genere in unione col genitivo detto «epesegetico»), come in Tertulliano adversus Marcionem 2,2 p.335,22: «ademptum est illi Paradisi gratia et familiaritas Dei» («gli fu tolto il dono del Paradiso e la familiarità con Dio») e poi Sant’Agostino de civitate Dei 8,19 p. 350,16 («ad gratiam veniae pervenire»; «giungere al premio del perdono»); infine l’uso, per così dire «assoluto», valido per indicare appunto la «grazia» (il dono): Sant’Agostino epistulae 194,5,19 («ipsa aeterna vita […] merita […] in nobia facta sunt per gratiam, etiam ipsa “gratia” nuncupatur […] quia gratis datur»; «la vita eterna stessa […] i meriti […] fatti a noi per mezzo della grazia, anch’essa stessa è chiamata ‘grazia’ […] perché viene concessa gratuitamente») e l’uso personificato di Grazia: Origene in I regum 1,5 p. 9,29 («de gratia et dono spiritus filium procreemus»; «procreiamo un figlio dalla grazia e dal dono dello spirito») e ibid. p. 10,2 («vides quales filios generat gratia?»; «tu vedi quali figli genera la grazia?»).

 

 

– 1 continua

 

[1] Si è cercato, per quanto possibile, di riferire esempi tratti da autori conosciuti e dalle loro opere più note. Ovviamente ciò non è stato sempre possibile, sia per gli scrittori che per le opere: per comodità del lettore medio o non specialista, i nomi ed i titoli sono sempre citati per intero, anche contravvenendo (felix culpa…) alle regole codificate della lessicografia classica per quanto attiene alle citazioni. A riguardo delle traduzioni italiane, poi, esse sono tutte opera mia: a seguire immediatamente il testo latino, se brevi, in nota, se di una creta ampiezza.

[2] La ricognizione di ogni lemma presenta – grosso modo – due parti: una prima di carattere etimologico, con eventuali ed opportuni riferimenti al greco, ed una seconda più rivolta alla storia dell’uso del vocabolo. Come strumenti per questa ricerca ci siamo serviti dei seguenti lessici e dizionari, tutti consultabili in rete: E. Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon (4 voll.), Padova 18052 [F]; Ch. Du Cange, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, Parigi 1733 [DC]; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 20014 [EM]; é. Boisacq, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Heidelberg-Parigi 1916 [B]; P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Parigi 1968-1977 [C]; Aa Vv, Thesaurus Linguae Latinae (da A a nenus, tutta la lettera O, da P a resilio), Heidelberg (voll. I-IV, V/1-2, VI/1-3; VII/1-2, VIII, IX/1-2, X/1-2, XI/2) [ThLL].

[3] Il participio presente di sum, anche se non testimoniato, in realtà è *sens, che troviamo solo nei composti (prae-sens, ab-sens, etc.).

[4] H.Keil, Grammatici Latini ex recensione Henrici Keilii (GLK), III, 239, 5, Lipsia 1857.

[5] Marco Fabio Quintiliano, Institutio oratoria, II, 14, 2 e VIII, 3, 33.

[6] Questo è quanto riporta, a tal proposito, F (s. v. ens): «[…] Quintilianus institutio oratoria 1.8.c.3. a Sergio Flavio rhetore scribit ens, et essentia formafa fuisse: quae tamen, inquit, dura admodum videntur. Id. 1.2.c.14. huic eidem Flavio tribuit haec duo essentia, atque entia, ubi ta entia videri potest substantivum» («Quintiliano […] scrive che ens ed essentia sono stati costruiti dal retore Sergio Flavio: queste parole tuttavia, aggiunge, sembrano alquanto dure […] a questo medesimo Flavio attribuisce queste due parole essentia ed entia, laddove ta entia potrebbe sembrare un sostantivo»).

[7] Cfr. Seneca, epistulae ad Lucilium 58, 6sg e Sidonio Apollinare, epistulae 4,4.

[8] Anche se in realtà essentia parte dal concetto di “essere, esistere”, mentre substantia da quello di “trovarsi materialmente in un dato luogo” per fornire un appoggio o una base, in genere di tipo metafisico (sub stare).

[9] In pratica le stesse testimonianze in ThLL V/2, coll. 862-865.

[10] E questa è l’essenza, che indivisibile, ed allo stesso modo divisibile Platone ha definito nel Timeo.

[11] Tas ousias che chiamiamo essenze dice che sono due.

[12] Ha detto al posto di essenza per così dire natura: talora tuttavia si è servito anche di quel vocabolo.

[13] Desidero, se può avvenire avendo tu le orecchie ben disposte, usare il termine essenza: altrimenti, lo userò anche se le tue orecchie non lo sopportano. Ho Cicerone come inventore di questa parola, e penso che basti: se tu ne cerchi invece uno più vicino a noi, Fabiano, eloquente ed elegante […] E allora che succederà, o mio Lucilio? come si dirà ουσία/ousìa, cosa necessaria, che ha in sé la natura, fondamento di ogni cosa? Ti prego allora, lasciami usare questa parola.

[14] Leggerai qui anche una nuova parola, cioè “essenza”, ma sappi che questa stessa la usò Cicerone […] è permesso infatti dare alle novità definizioni nuove. Ed ha detto bene.

[15] Riguarda la condizione, per la quale qualcosa può diventare o esistere […] come termine tecnico in filosofia ed in teologia si impiega come la dýnamis di Aristotele, alla quale si oppone la enérgheia […] sinonimi vestigium, semen, vis, virtus, opposti actio, actus, opus.

[16] Cleante di Asso (circa 330-circa 230 a.C.) fu un importante filosofo greco della scuola stoica.

[17] Aristoteles, dato che è costituito di quei quattro generi di principi, dai quali ogni cosa nascerebbe, pensa che ci sia una sorta di quinta sostanza, della quale sia formata l’intelligenza.

[18] Contro il loro errore con parola greca, cioè omo-ousios, difendiamo il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo, cioè di una sola ed identica sostanza, o per dirlo più chiaramente, essenza […]; cosa che si possa dire più semplicemente: di una sola ed identica natura.

 

 

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