Un cattolico venerato come santo dalla Chiesa ortodossa: Alexei Yegorovich Trupp

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Il sangue per la Fede, speranza di una nuova Europa

Rubrica di Arduinus Rex

 

Non è usuale che un fedele cattolico venga venerato come santo da una Chiesa ortodossa, destino capitato al cuoco della famiglia imperiale russa Romanov. Per riscoprire la sua vicenda occorre ritornare ai fatti di quel tragico 1918.

Il 23 maggio, il dottor Vladimir Derevenko, specialista nel trattamento dell’emofilia, ricevette dai carcerieri dei Romanov il permesso di visitare Casa Ipatev, dove la famiglia imperiale era trattenuta in condizioni di rigidissima prigionia. Nel momento in cui, avvicinandosi ormai il giorno della loro morte, i Romanov erano stati consegnati al soviet radicale di Ekaterinburg, era stato loro imposto di separarsi da buona parte dei collaboratori che fino a quel momento li avevano seguiti in esilio. All’interno di Casa Ipatev, la famiglia aveva ottenuto di portare con sé il valletto dello zar, una cameriera per la zarina e le sue figlie, il cuoco di fiducia e il medico di famiglia. Alcuni servitori, che erano stati coi Romanov fino a quel momento per tutta la durata della loro prigionia, erano stati condotti a loro volta a Ekaterinburg e vivevano in stato di semi-reclusione in altre case del villaggio, senza poter avere contatti con la famiglia imperiale. In quel pomeriggio del maggio 1918, però, persino i carcerieri concessero uno strappo alla regola. Il piccolo Alexei, figlio dello zar Nicola II, era malato di emofilia e sofferente ormai da qualche giorno: aveva inavvertitamente sbattuto un ginocchio contro un muro e le sue condizioni si stavano rapidamente aggravando. Il dottor Botkin, il medico generico che aveva seguito gli zar in Casa Ipatev, non era più in grado di gestire la situazione. Chiede allora l’intervento del suo consulente, il dottor Derevenko, specialista in malattie del sangue, che era proprio lì a due passi, nella casa che ospitava il resto del personale. Quando il dottor Derevenko finì la sua visita, fece ritorno alla base con un ordine da riferire. Il valletto dello zar, Terenty Chemodurov, era ammalato gravemente e necessitava rimpiazzarlo.

Fu prescelto Alexei Trupp, un altro dei valletti dello zar. Questi arrivò quella sera stessa, portando al piccolo ammalato una sorpresa non da poco: Joy, il suo adorato cagnolino, un english spaniel. Non appena mise piede a Casa Ipatev, il nuovo valletto venne perquisito e dovette firmare una dichiarazione scritta in cui riconosceva il suo status di prigioniero politico ed accettava di “sottomettersi a Roviet Regionale Urale, di soddisfare i suoi ordini e di considerarsi egli stesso nella medesima posizione dei membri della Famiglia Romanov”. Un atto eroico di carità cristiana, in un momento in cui gli sarebbe convenuto rinnegare la famiglia imperiale e godersi la sua vita.

Alexei Yegorovich Trupp (per la precisione Alois Laurius Trups) era nato l’8 aprile 1856 nel villaggio di Barkava, attuale Lettonia orientale. La sua era una famiglia di contadini che nel corso degli anni si era guadagnata un tenore di vita di un certo rispetto. Era cattolico, e coi suoi fratelli frequentava regolarmente le attività parrocchiali nella chiesa locale, potendo così studiare presso la piccola scuola gestita in loco dal sacerdote. Barkava era, a quel tempo, un paese minuscolo, che non offriva grandi prospettive se non dedicarsi all’agricoltura. L’ambizioso Alois desiderava per sé qualcosa di più, e, non appena ebbe compiuto la maggiore età, si arruolò nella Guardia Imperiale, uno dei rami dell’esercito russo. Fu proprio lì, per la cronaca, che cambiò nome: il lettone Alois Trups fu traslitterato nel cirillico Alexei Trupp. Fu proprio nella Guardia Imperiale che la vita di Alexei ebbe una svolta decisiva. Alto, biondo, occhi azzurri, lineamenti delicati, un corpo robusto e tornito, un giorno fu notato in mezzo alla massa di soldati schierati sull’attenti da Maria Fedorovna, la penultima zarina di Russia, madre del futuro zar Nicola. Appassionata sostenitrice degli ideali di tolleranza religiosa e di internazionalismo, la zarina gli propose un posto nell’entourage imperiale: Alexei iniziò con un incarico di tipo amministrativo, ma pian piano si avvicinò sempre di più alla famiglia Romanov. Allo scoppio della Rivoluzione Russa, era un lacchè di primo grado addetto al servizio dello zar Nicola, carica di poco inferiore a quella di valletto, erroneamente attribuitagli da diverse pubblicazioni.

Verosimilmente tra Alexei e la famiglia Romanov si era creato negli anni un rapporto di vera confidenza. La sua fu una vita interamente dedicata al loro servizio, tanto che non pensò mai di lasciare il suo posto di lavoro e non volle nemmeno mettere su famiglia. A Barkava, in Lettonia, moltissimi ricordavano Alexei, anche a decenni dal giorno della sua morte. Alexei viene ritratto come un uomo tutto sommato umile, con i piedi ben piantati per terra. Il suo ruolo a corte gli garantiva uno stipendio da capogiro, e lui senz’altro lo mise a frutto, acquistando un paio di case di villeggiatura in cui passare le sue ferie e un certo numero di appezzamenti di terreno che forse immaginava di trasformare in una fonte di guadagno per i suoi ultimi anni di vita, dopo la pensione. Ma a parte queste piccole concessioni, non era un uomo che ricercasse il lusso. Se non vestiva con la sua livrea indossava abiti normali e di oggetti semplici riempiva le sue case. Sempre attento ai bisogni del suo paese natio, vi tornava spesso. Non negava mai un aiuto economico se qualcuno aveva bisogno di un prestito; in particolar modo, apriva il suo portafoglio davanti al parroco, per qualsiasi bisogno avesse dovuto avere la sua chiesa. Allegro e socievole con i suoi compaesani, condivideva volentieri una bella bevuta all’osteria ma rifiutava di partecipare a qualsivoglia tipo di evento pubblico, ligio alla discrezione apolitica che gli imponeva la sua carica di palazzo. Era un uomo buono, e i suoi compaesani concordano nel dire che, per loro, era anche un esempio. Esempio di come, con l’impegno anche un anonimo contadino lettone possa giungere a realizzare tutti i suoi sogni.

Alexei finì i suoi giorni in modo onorevole, rimanendo al fianco del suo signore sino all’ultimo respiro. Avrebbe potuto dimettersi dal suo ruolo di lacchè, andarsene lontano e ritirarsi nelle sue case di villeggiatura, se solo avesse voluto. Seguì invece gli zar nella loro prigionia in Siberia e fu con loro anche quando la famiglia imperiale venne trasferita a Ekaterinburg. Dapprima, come detto, non fu ammesso all’interno di Casa Ipatev, restando in un edificio separato con il resto della servitù fedele, ma nel maggio 1918 dovette ricongiungersi con Nicola ed i suoi familiari. In quella notte a cavallo tra il 16 e il 17 luglio, i Romanov e i loro servitori vennero svegliati nel cuore della notte e si annunciò loro un trasferimento imminente in una località imprecisata. Quando Alexei uscì dalla sua stanza per raggiungere gli altri compagni di prigionia, portò con sé una coperta per ripararsi dagli spifferi sul mezzo che li avrebbe condotti altrove. I prigionieri erano tranquilli, convinti che si trattasse di un semplice trasferimento. I prigionieri vennero condotti in uno scantinato e venne ordinato loro di disporsi in un certo modo all’interno della stanza, come se i loro aguzzini li stessero mettendo in posa per una fotografia. In realtà erano stati disposti in modo tale da offrire i loro corpi nel più agevole modo possibile al plotone d’esecuzione, che sarebbe entrato qualche istante dopo. Avrebbe dovuto essere una cosa rapida e indolore, ma nessuno dei cecchini ‘professionisti’ a disposizione del soviet se la sentì di uccidere i prigionieri. I bolscevichi dovettero andare in giro a raccattare cecchini volontari che si rivelarono palesemente impreparati per il compito. Quella notte, quando il comandante del plotone d’esecuzione sparò il suo primo colpo allo zar Nicola, tutti gli altri presenti reagirono di pancia: anziché sparare ordinatamente alla vittima che era stata assegnata a ciascuno di loro, tutti puntarono la loro pistola verso lo zar, spinti da un forte desiderio di vendetta e dalla tentazione di poter dire “ho sparato io a Nicola Romanov”.

Lo zar venne dunque crivellato di colpi di fronte agli occhi sconvolti di tutti gli altri presenti. Scoppiò il panico, ovviamente, e tutti cercarono la fuga. I cecchini a quel punto si trovarono costretti a sparare alle gambe per impedire ai prigionieri di disperdersi oltre. Feriti gravemente, ma neppur lontanamente moribondi, i miseri caddero a terra, ma a quel punto sdraiati sul pavimento, accovacciati contro la parete, ovviamente tentarono d’istinto di proteggersi dalle pallottole. Divenne così drammaticamente più complicato finirli con un colpo pulito al cuore. La stanza piccola e poco illuminata era ormai invasa dal denso fumo causato dai molteplici colpi esplosi, rendendo realmente difficile mirare con precisione alle sagome accovacciate nella semioscurità fumosa. Il povero Alexei Romanov, incapace di muoversi a causa di quella famosa ferita al ginocchio che gli stava ancora dando problemi, assistette a tutta la scena seduto su una seggiola senza muovere un muscolo: bloccato dal dolore, neppure si alzò dalla sedia; immobile mentre tutt’attorno a lui si scatenava il marasma. Ci vollero venti interminabili minuti per giustiziare i Romanov ed una delle vittime non era ancora morta quando la caricarono sul camion per la fossa comune.

Ad Alexei Trupp, nella tragedia, andò di lusso. Il lacchè dello zar Nicola è stato identificato con sicurezza come lo scheletro n. 9 rinvenuto nella fossa comune che accolse i resti dei Romanov. Le analisi forensi combaciano bene, infatti, con le testimonianze rilasciate dal capo del plotone d’esecuzione, e concordano sul punto che il nostro amico ebbe una fine “invidiabilmente” rapida. Ferito ad una gamba, cadde a terra, e fu finito poco dopo con due colpi dall’alto sparati direttamente alla testa. Venerato come martire dalla Chiesa Ortodossa Russa all’Estero, è stato da essa canonizzato quale santo ortodosso nel 1981, a dispetto della sua fede cattolica. In una nota fatta circolare all’epoca della sua canonizzazione, veniva spiegato che “questa persona fu battezzata dal suo stesso sangue di martire, ed è quindi degna di essere canonizzata assieme alla famiglia Romanov”. Non è invece della stessa idea è il Patriarcato di Mosca, che ritiene la fine dei Romanov una tragedia, ma non un martirio in senso stretto, e non ha quindi potuto canonizzare Trupp con l’escamotage del battesimo di sangue. Con un riconoscimento di stima che Alexei non avrebbe mai nemmeno potuto immaginare, le sue spoglie mortali riposano nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a San Pietroburgo, al fianco di quelle della famiglia Romanov. Sulla sua bara, a differenza delle altre, il Patriarcato di Mosca, che officiò i riti di sepoltura, volle che fosse impressa non una croce ortodossa, bensì una croce a quattro punte cattolica.

 

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