San Francesco e il Cantico delle creature

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La tolleranza è indifferenza;

chi crede vuole che gli altri credano.

Noi siamo intolleranti.

(Domenico Giuliotti)

Tutti conoscono il celeberrimo “Cantico delle creature” di san Francesco di Assisi, divenuto anche una sorta di “manifesto” per i movimenti atei e gnostici vicini alla spiritualità naturalistica ed ecologista. Lasciando da parte le persone non credenti, nella Chiesa cattolica il Cantico è giustamente rinomato e celebrato come una delle espressioni più elevate e poetiche del grande santo di Assisi. Non c’è campo scuola parrocchiale dei giovani, non c’è gruppetto chitarra-munito, non c’è associazione giovanile cattolica (di quelle residuate che rimangono) che non abbia in repertorio il “Laudato sì mi Signore”.

Mi sono accorto però di una cosa interessante: in genere i canti di chiesa che musicano il Cantico delle creature tralasciano l’ultima strofa. Essa non viene parafrasata, viene proprio cassata, tagliata con la ghigliottina, espulsa. Stessa cosa capita ai santini presso le librerie cattoliche tipo “Paoline”: la preghiera, composta di 15 strofe, ne contiene solo 14. La penultima è dissolta. sparita.

Che cosa dice questa strofa, così in odio ai censori moderni? Questo: dopo aver lodato il Signore per tutte le creature, l’acqua, il vento, il fuoco, la madre terra, eccetera, improvvisa appare questa terribile ammonizione: “Guai a quelli che morranno nei peccati mortali!”. La frase è importante, enfatica, tanto che nell’edizione tipo, quella che i Francescani stessi autori delle Fonti Francescane danno come normativa (Edizioni Messaggero Padova, 1977), l’espressione termina col punto esclamativo, che manca in tutte le strofe precedenti in cui si lodava l’Altissimo ora per una cosa ora per l’altra.

Dunque, i moderni tolgono la frase di Francesco che ammonisce severamente il lettore: “Guai a te!” In effetti per loro è meglio rimanere sul tranquillo messaggio che inneggia alla bellezza della creazione, fare un’anemica e innocua passeggiata ecologica piuttosto che scontrarsi aspramente col peccato mortale. Cosa c’entra il peccato con fiumi, prati e fiori?

Per Francesco ogni cosa sia in ordine a Dio Altissimo. Francesco vede un filo d’erba e subito esclama: “Laudato sii mio Signore per sora erba”; vede un ruscello d’acqua limpida e s’innalza a Dio: “Laudato sii o mio Signore per sorella acqua”, e così via. Egli non si ferma alla cose che vede: in tutto egli contempla il dito di Dio, la sua presenza, e la lode quindi va immediatamente all’autore piuttosto che alla creatura. Il Cantico delle creature in realtà è un Cantico al Creatore. Le creature passano, il Creatore no. Ed è a Lui che tutto si riferisce.

Si capisce allora immediatamente quell’improvviso e drammatico “guai”: il sole è bello e radioso, la luna e le stelle sono clarite, preziose e belle, l’acqua è preziosa e casta, il fuoco è bello, iocundo, robustoso e forte, sì, ma solo perché Dio-Creatore è bello (anzi, “il bellissimo”, come diceva san Bonaventura). E di conseguenza il peccato è brutto, orribile. Il mondo è meraviglioso, ma il peccato mortale ti taglierà via in modo definitivo da tutta questa bellezza. Il santo di Assisi sapeva bene tutto ciò.

Togliendo “Guai a quelli che moriranno nei peccati mortali” – guai perché perderanno sia la bellezza attuale con la prima morte sia quella definitiva con la seconda morte (cfr strofa 14 del Cantico) – i censori moderni fanno crollare tutto il Cantico delle creature, che diventa così, orfano di quella strofa, un canto senza padre, un insieme di rime su prati e fiori che avrebbe potuto comporre anche uno scintoista, un hippy o Heidi con le sue caprette sui monti.

Di ben altro spessore è la santità sfolgorante di Francesco di Assisi, un innamorato di Cristo per il quale le cose sono o bianche o nere, per il quale la fede è una cosa così seria che si può anche morirne, che era severo con i propri frati perché sapeva bene il prezzo della Redenzione ottenuta da Gesù crocifisso.

A proposito di questo, stupirà il passo del trattamento riservato al frate caduto nella colpa di calunnia. Si trova scritto nelle Fonti Francescane: «Un giorno Francesco udì un frate che denigrava il buon nome di un altro, e rivolto al suo vicario, frate Pietro di Cattanio, proferì queste parole: “Coraggio, muoviti, esamina diligentemente, e se troverai innocente un frate che sia stato accusato, punisci l’accusatore con un severo ed esemplare castigo. Consegnalo nelle mani del pugile di Firenze” (chiamava pugile fra’ Giovanni di Firenze, uomo di alta statura e dotato di grande forza)».[1]

Il mite Francesco, dunque, consegna il frate peccatore ad un altro frate dal nome piuttosto inquietante: pugile, e l’autore non si perita di precisare che tale Giovanni da Firenze fosse una sorta di gigante con mani piuttosto pesanti. Che cosa poi il boxeur in saio francescano facesse al malcapitato, lo lasciamo immaginare… dobbiamo solo sperare che dopo la “cura” il calunniatore abbia fatto seguire un sincero pentimento, se non altro per non ricadere sotto le grinfie del fiorentino (Aveva costui molto “lavoro” all’interno dell’Ordine? Non ci è dato di sapere).

Ma, a dire il vero, la cosa non ci meraviglia. L’uomo medioevale (e san Francesco era tale) sapeva bene in che pericolo si mette l’anima quando si cade nei peccati gravi, ed escogitava di tutto affinché il peccatore si pentisse. Vera opera di misericordia, questa. Le sventole di fra’ Giovanni da Firenze, o i “guai” rivolti ai peccatori, servono per risvegliare le anime, per metterle in guardia di fronte ai veri pericoli, che sono inerenti alla vita eterna: o la salvezza o la dannazione.

Anche il Signore Gesù usò i suoi “guai” nei confronti dei ricchi disonesti, di coloro che ridevano impunemente, di coloro che usano le cose del  mondo facendo soffrire il prossimo, dei sazi che mangiavano sulle pance vuote dei bisognosi (Lc 6,24-26), ma anche quelle terribili parole uscirono dalla bocca santissima della Verità incarnata, della Pietà misericordiosa, dell’Amore infinito.

Insegniamo e leggiamo pure il Cantico delle Creature, ma leggiamolo per intero, e piangiamo commossi contemplando il cielo, le stelle, il fuoco, i frutti, la madre terra, piangiamo chiamando “sorella” la morte, piangiamo scossi dal monito del peccato mortale, vero elemento distruttore dell’anima, la quale, oscurata dal vizio, non riesce più a contemplare né se stessa, né Dio, né la creazione.

Che i dormienti dunque si sveglino, riscossi dalla voce di Francesco – quello santo, quello di Assisi – e riascoltino le consolanti parole unte di Spirito Santo: “Beati quelli che [la morte] troverà nelle tue sanctissime voluntati (…). Laudate e benedicete il Signore, e ringraziate e servitelo con grande umiltà”. Questo è il vero Francesco, questo è il vero Cantico.

[1] Vita seconda di Tommaso da Celano, Cap. 38, n.182, in: “Fonti Francescane”, Ediz. Messaggero Padova, Padova 1988, pag.697.

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2 commenti su “San Francesco e il Cantico delle creature”

  1. NON MI STUPISCO CHE COLORO I QUALI SONO ABITUATI A TRAVISARE IL VANGELO E A COMPIERE OMISSIONI CIRCA LA DOTTRINA DI GESU’ CRISTO (VEDI L’ABOLIZIONE DELLA PESTIFERA ERESIA) FACCIANO ALTRETTANTO CON I SANTI

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