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Monsignor Tommaso Maria Ruffo, maestro di fede anche per oggi
Non un atteggiamento autoritario o peggio spietato, fine a se stesso, ma il profondo e santo desiderio della rinascita spirituale del clero e la riscoperta della perla preziosa della vocazione sacerdotale fu quello che determinò gli interventi disciplinari di monsignor Tommaso Maria Ruffo.
Una santità di vita che non solo pretese dai suoi, ma che testimoniò egli stesso in molti modi: innanzitutto incarnando perfettamente il carisma domenicano della Caritas Veritatis, ovvero l’ardore per la Verità Rivelata, conosciuta, accolta e trasmessa con ogni cura agli altri, carisma riassunto perfettamente da S. Tommaso d’ Aquino nella Summa Theologiae, nell’espressione contemplare e trasmettere agli altri ciò che si è contemplato. Anche in questo si adoperò fra’ Tommaso Maria che, oltre ad un efficace riformatore fu un vero e proprio maestro di sapienza: il modo in cui ammaestrava il popolo e lo edificava è testimoniato proprio dai suoi contemporanei che rimanevano sorpresi dalla chiarezza, dalla precisione ma anche dalla ricchezza dottrinale che riusciva a trasmettere anche al popolo, con semplicità. Di lui scrisse p. Antonio Zaccaria O.P. confessore di monsignor Ruffo, nel profilo tracciato per il suo processo di santificazione: «Erano sì fervorose le sue parole, profondi i suoi pensieri, ammirabili i suoi concetti, che sembrava da sugli altari, luogo solito delle sue prediche, un nuovo san Paolo, onde si stimavano infelici quelle persone che non si trovavano presenti». Sempre i suoi contemporanei, testimoniarono un’incredibile assonanza spirituale, caratteriale e intellettuale con san Giovanni Crisostomo, tanto da poter affermare che nei suoi discorsi e nei suoi insegnamenti, sembrava di sentir riecheggiare proprio la parola ed il pensiero del Santo.
Va sottolineato, inoltre che padre Tommaso Maria, nonostante la ricchezza e la preziosità contenutistica dei suoi insegnamenti, volle decisamente abbandonare, pur avendone tutte le capacità per servirsene, ogni vano esercizio retorico, prediligendo, in ogni occasione, la chiarezza della forma, alla raffinatezza dell’eloquio, al fine di convertire più che di ottenere applausi.
Anche nella scelta del messaggio su cui incentrare la sua predicazione, decise di puntare sull’essenziale: seguendo l’insegnamento di san Paolo, si propose di «non insegnare altro che Cristo e Cristo Crocifisso» davanti al quale, sull’esempio di san Domenico, si prostrava per ore in preghiera, riconoscendo la propria indegnità e maturando, sotto il suo sguardo e fissando le sue piaghe, le decisioni più amare e difficili della sua vita. Tuttavia, per monsignor Ruffo, il Crocifisso non fu solo l’amico nelle sue solitudini, il conforto nei suoi momenti di prova e il fiore all’occhiello della sua predicazione, fu il mezzo soprannaturale attraverso il quale cercò di porre rimedio ai danni della Riforma protestante che, negando alla Messa il vero carattere di sacrificio, la riduceva ad una semplice “rappresentazione simbolica” della Passione di Cristo e affermando che la giustificazione dei peccati derivasse esclusivamente dal sacrifico di Cristo, compiuto una volta per sempre sul Calvario, rendeva il peccatore meno motivato a combattere e pentirsi delle proprie colpe.
Fu una spiritualità, quella di Monsignor Ruffo, che rispecchiò in modo netto e cristallino, quella di san Domenico, che insieme ai suoi primi compagni lottò contro il dualismo dei «catari», che vedevano nel mondo materiale e quindi nella corporeità, nelle istituzioni della società umana e della Chiesa, nella natura, un’opera demoniaca. Una lotta contro ogni forma di “spiritualismo” che ha segnato dunque da sempre l’ordine domenicano e che Ruffo portò avanti in modo ancora più acceso e radicale, in seguito alla riforma protestante.
Nel ribadire l’importanza dei sacramenti, soprattutto della Santa Comunione, come segni visibili della Grazia e, dunque anche del tramite fondamentale del dato reale, della “carne”, mostrò sempre un’attenzione particolare verso ciò di più “concreto” con cui ebbe a che fare, ovvero le sue “pecore”.
Non ci fu luogo, palazzo o tugurio, che fra’ Tommaso Maria non conobbe, impegnandosi ad incontrare ogni giorno gente che era abituata ad essere ignorata per le condizioni di miseria in cui viveva. Proprio alle famiglie più povere non esitò a mettere a disposizione parte del suo palazzo arcivescovile e a chi non poteva permettersi neanche un tozzo di pane fornì il cibo necessario, riducendo il suo vitto giornaliero per non trascurare le esigenze di nessuno. Si racconta che le scale e le stanze della sua casa fossero sempre affollate di gente che non tornava mai a mani vuote: il canonico don Giovanni Baldassare, suo segretario e don Domenico De Falco, maestro di camera, al processo informativo presso la Curia di Bari per la sua beatificazione, testimoniarono che, se si accorgeva che nella lista della spesa c’era qualche minima aggiunta di denaro per il suo pasto quotidiano, immediatamente rimproverava i domestici: “Troppa roba, badate a non spendere così il denaro per i poveri. Con questo di più si potevano sfamare de poveri”. Alla sua tavola sedevano quotidianamente almeno due persone indigenti, ma durante le festività la sua mensa era ancora più affollata. Creò anche un Monte di pietà, non solo per soccorrere i bisogni più urgenti ma anche per sottrarre il popolo, soprattutto i mercanti, alla terribile piaga dell’usura e, per istituire tale fondo, donò tutta la sua argenteria.
Importanti doni spirituali accompagnarono sempre il suo ministero: il discernimento degli spiriti, la profezia, il dono della guarigione e la liberazione dallo spirito diabolico. Infatti la sua fame di esorcista spesso lo procedeva, insieme a quella dei miracoli compiuti. Ma il banco di prova più importante e, grazie al quale, venne fuori in modo inequivocabile la sua santità di vita fu la terribile malattia che lo colpì e che ne causò la morte. Il suo confessore, p. Antonio Zaccaria O.P. in tal proposito testimoniò: «Ho imparato più, per quei pochi anni che l’ho servito, di teologia mistica, che in tutto il corso della mia vita». La malattia che lo condusse alla morte fu una grave infezione alle parotidi che contrasse per contagio, agli inizi del 1691 e che sopportò stoicamente continuando a svolgere il suo servizio, nonostante il divieto assoluto dei medici di compiere il minimo movimento. L’estrema sofferenza non gli impedì nella fase iniziale della sua malattia, di continuare la celebrazione quotidiana della Messa, seppure con grande difficoltà, insieme alla recita dell’Ufficio delle letture.
Ma, una volta aggravatosi, fu il suo confessore, p. Antonio Zaccaria, ad ingiungergli di obbedire alla prescrizione di riposo assoluto dettatagli dai medici, così fu costretto a privarsi di tutti i suoi momenti di preghiera. L’infezione, infatti, degenerò a tal punto che il gonfiore quasi lo soffocava, procurandogli terribili dolori, tanto che quando, nel pieno della sua agonia, il suo confessore, fortemente preoccupato, gli chiese cosa provasse, con un filo di voce gli rispose: «Non ne posso più!». La tracheotomia fu il tentativo estremo a cui ricorsero i medici per evitargli la morte per soffocamento, ma l’intervento, eseguito per di più con ferri roventi, fu così doloroso, che ne accelerò il decesso, addirittura al giorno successivo, 29 aprile, festa di san Pietro Martire, data che in passato aveva predetto come giorno del suo passaggio al Cielo. Ricevette il Viatico dalle mani del suo confessore, con grande raccoglimento e invocando il Signore per tre volte con voce flebile: «Jesus! Jesus! Jesus!», subito dopo concluse la sua straordinaria “corsa” terrena.
La notizia della sua morte venne annunciata, pochi istanti dopo, con un colpo di cannone, al popolo, che si riversò in massa nell’episcopio, dove il suo corpo non era ancora stato composto e da cui la gente, disperata, cercò di sottrarre qualunque piccolo elemento da conservare come reliquia: ci fu chi addirittura gli portò via le scarpe, chi pezzetti di camicia, chi ciocche di capelli e chi persino le unghie. Monasteri, conventi, famiglie nobili, chiesero lenzuola o pezzetti delle sue vesti come reliquie, tanta era la fama di santità che avvolgeva monsignor Ruffo. Ma l’aspetto più sorprendente di tutta questa vicenda è che, nonostante il Servo di Dio, avrebbe potuto rappresentare, dopo essere stato canonizzato (ma il processo di canonizzazione risulta ancora bloccato) un vero e proprio fiore all’occhiello, per la Chiesa di Bari, tuttavia, subito dopo la sua morte, il clero barese gli riservò un trattamento a dir poco irrispettoso: venne sepolto in una tomba che condivide ancora con un altro vescovo, senza il suo stemma, senza nemmeno una targa in suo ricordo. Sembra quasi una damnatio memoriae per potersi liberare di un personaggio scomodo, a causa, forse, della severa azione di riforma e di correzione dei costumi del clero locale.
Tuttavia, questa straordinaria figura, è stata riscoperta, ultimamente, proprio in tempi così difficili e oscuri per la Chiesa: di recente monsignor Ruffo è stato raffigurato in un particolare quadro dipinto dal pittore barese Giorgio Esposito, eseguito ad olio su tela, che lo ritrae in veste di esorcista (cm. 100 x 80) utilizzando la tecnica indiretta, a impasti e velature, preceduta da un abbozzo a grisaglia.
La posa, essenziale nel suo insieme, denota un movimento ascensionale che ne accentua la spiritualità. Un certo movimento, pur nella posa statica, si può ravvisare nei leggeri spostamenti del pastorale e della croce, inclinati leggermente verso i bordi della tela, e del volto del vescovo che non è in asse con il corpo, ma si volge decisamente verso lo spettatore. La luce, proveniente da sinistra, avvolge le forme e ne mostra contemporaneamente gli elementi in ordine di importanza: la croce, la mitra e il pastorale. In un primo momento l’immagine appare realistica ma, a ben guardare, sembra che specialmente le forme esterne del volto si dissolvano e coincidano con quelle spirituali, per cui l’immagine risulta densa di simboli e significati.
Lo sguardo nell’insieme mostra fede sicura e forza, miste a trasparenza, dolcezza e comprensione per le miserie umane.
Dagli occhi trapela un animo sensibile, dedito a perseguire i valori più alti e nobili dell’esistenza e un’attitudine a scrutare le profondità più recondite dell’anima, nonché una profonda comprensione dell’animo umano e della sua fragilità. Le labbra, invece, mostrano una certa fermezza, propria di chi non ama proferire discorsi nebulosi o approssimativi; gli zigomi incavati recano il segno delle frequenti penitenze a cui si sottoponeva.
La pesante ombra, che si proietta dalla manica del braccio destro lungo il corpo, rappresenta le forze del male che si oppongono alla Chiesa tentando di ottenebrarla e a cui si contrappone la croce impugnata dal vescovo ed esorcista come l’unica arma in grado di farle retrocedere. Essa, infatti, è il fulcro sul quale ha sempre poggiato la Chiesa Cattolica e intorno al quale ruota la vita del cristiano di tutti i tempi e, nonostante l’odio che il mondo porti per essa, resta l’unica garanzia per la conquista del regno dei cieli e dispensatrice della vera gioia. Dal punto di vista tecnico, la medesima ombra ha la funzione di accentuare la prospettiva del braccio che viene proiettato in avanti mostrando con pacata fermezza la croce di Cristo.
La forte luce sulla mitra del vescovo indica il fulgore della santità e la luce dello Spirito Santo che guida la Chiesa e mostra come essa avanzi sicura, pur in mezzo a dense tenebre da cui può essere avvolta, rappresentate dal fondo scuro. Anzi in questo buio essa sembra sfolgorare ancora di più.
Giorgio Esposito è nato a Bari nel 1952. Da ragazzo frequentò lo studio della pittrice fiorentina Enedina Pinti (allieva di Giovanni Fattori). Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti, ha insegnato al Liceo Artistico di Bari e all’Istituto d’Arte di Corato alla cattedra di «Ornato Disegnato» e «Figura Disegnata». È stato membro della Commissione di Arte Sacra per la Puglia. Sue opere si trovano in varie chiese baresi e in collezioni private e pubbliche. Ha tenuto numerose esposizioni personali e collettive.