Egregio Direttore,
le elezioni in Sardegna sono state presentate come quasi una battuta d’arresto della crescita della Lega. Alcuni parlano di rinascita del Partito democratico e paragonano la crescita di consensi al partito di Salvini a quella che ebbe il partito di Renzi. E altri vedono nel crollo del Movimento 5 Stelle il preannuncio di ciò che sta per accadere al Carroccio.
La ringrazio se vorrà rispondermi. Facendo i miei più sentiti complimenti per il sito, saluto cordialmente.
Raffaele Aquilini
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Egregio Signor Aquilini,
Ella, con mirabile sintesi, ha posto tutti i principali problemi che i risultati elettorali, per certi versi sorprendenti, di quest’ultimo anno fanno sorgere in chi li voglia esaminare.
La crisi del Partito democratico, normalmente, viene attribuita alle politiche di Matteo Renzi, quasi che fosse sua la responsabilità dei crolli elettorali subìti. Questa lettura appare superficiale ed autoconsolatoria, perché, di fatto, Renzi ha continuato le medesime politiche che il partito aveva fatto fino a quel momento, pur cercando di innovarne lo stile, e perché la crisi è molto più profonda, in quanto riguarda la contraddizione interna di tutta la sinistra “anti-sovranista”.
Oggi, in tutta l’Unione europea, lo scontro è fra chi contesta le regole di Bruxelles, fino ad essere disposto ad uscire, almeno dalla moneta unica, e chi, pur muovendo più o meno aperte critiche alle politiche comunitarie, accetta tali regole e, anzi, le difende. La sinistra, di tutta Europa, sia pure con alcune limitate eccezioni, normalmente tardive e collocate alla sua estrema, ha sposato il dogma dell’europeismo, sacrificando sul suo altare ogni protezione dei ceti sociali più deboli. In Italia, questo processo non è nato con Matteo Renzi, ma dura da decenni ed ha toccato il suo apice, prima che l’ex sindaco di Firenze divenisse Segretario, con l’entusiastico sostegno al Governo Monti, che è, addirittura, apparso come una creatura del Partito democratico. Paradossalmente, ma non troppo, Renzi ha attenuato questa tendenza, almeno sul piano dell’immagine, mostrando una qualche, teorica, attitudine a discutere almeno le politiche, se non le regole comunitarie. Il distacco, quindi, del partito di Largo del Nazareno da una parte importante del voto operaio e, più in generale, “popolare”, per ampliare i propri consensi anche tra i «ceti borghesi», per usare la classica terminologia marxista, è cominciata decenni prima, trasformandolo nell’interlocutore prediletto delle Autorità comunitarie e nel più forte interprete dell’europeismo, già in contrasto con Silvio Berlusconi ed il centro-destra.
Questo processo è stato, poi, sintetizzato giornalisticamente con la formula della riduzione del Pd a «partito ZTL», con allusione al fatto che i quartieri delle grandi città dove prende più voti sono quelli centrali, appunto le Zone a Traffico Limitato, mentre nei quartieri periferici si affermavano altre forze politiche, a partire proprio dalla Lega. Questo processo è stato, per gli eredi del vecchio Partito comunista, particolarmente traumatico.
I partiti, sotto il profilo della stabilità del consenso elettorale, possono essere divisi in due grandi categorie: quelli a forte radicamento sociale e quelli di opinione. I primi si caratterizzano per una forte ideologia[1] ed una struttura importante e capillarmente diffusa sul territorio. Queste due caratteristiche rendono tali formazioni punto di riferimento umano, oltre che politico, per le persone ed i gruppi sociali che vi si identificano e che ne costituiscono il cosiddetto «zoccolo duro»[2]. Questa struttura comporta una maggiore stabilità del consenso, poiché, se, da un lato, garantisce un certo numero di voti “sicuri” di persone che si identificano nel partito, nella sua ideologia e nella sua struttura, intesa anche come i rapporti umani, che essa, inevitabilmente, crea, dall’altro, rende più difficile il voto a quella formazione politica per chi non si identifica in essa.
Gli esempi classici di partito a forte radicamento sociale sono stati la vecchia Democrazia Cristiana (a suo modo), il vecchio Partito comunista e, fino a poco tempo fa, il Pd; oggi lo è, ancora in parte, la Lega.
I partiti di opinione sono invece quelli che, con una struttura molto leggera, raccolgono il consenso intorno ai programmi di cui si fanno promotori ed alle istanze che difendono. Essi sono caratterizzati da una maggiore mobilità del voto, legato quasi esclusivamente alle contingenze politiche del momento, poiché anch’essi hanno uno «zoccolo duro», ma esso è, in proporzione ai loro voti, talmente piccolo da risultare quasi irrilevante. Durante la cosiddetta «Prima Repubblica», essi erano solo piccoli partiti, tanto che l’espressione «partito d’opinione» era divenuta sinonimo di raggruppamento di piccole dimensioni, contrapposto alle grandi formazioni, dette, appunto, «partiti di massa». Forza Italia fu, se così si può dire, il primo «partito d’opinione di massa»; medesima cosa si può dire oggi del Movimento 5 Stelle.
Per il Pd, quindi, il passaggio da formazione politica a forte radicamento sociale a partito d’opinione è stato, come dicevamo, particolarmente drammatico, perché ha voluto dire perdere gran parte del suo «zoccolo duro», senza avere la capacità di raccogliere, volta per volta, i consensi necessari ad affermarsi, ma, addirittura, tendendo a perdere quei voti “liquidi”, che i successi dell’era renziana parevano promettergli.
Discorso diametralmente opposto vale per la Lega. A prima vista, potrebbe apparire come una ripetizione della parabola renziana, come Ella riportava: sulla struttura di un partito forte radicamento sociale, si riversa una tale massa di voti «d’opinione» da rendere quasi irrilevante il suo «zoccolo duro». La differenza fondamentale è che, nel caso della Lega, il voto d’opinione non è in contrasto, né, a maggior ragione, in opposizione a quello identitario, ma questo ne costituisce, almeno in larga parte, un allargamento, sia pure abnorme, per rapidità e dimensioni; tale allargamento, ovviamente, non è ancora consolidato e, quindi, rimane voto d’opinione e non ancora identitario, ma la tendenza è quella, al contrario di quanto avvenuto nel Pd, di continuare a far prevalere la faccia identitaria su quella d’opinione e non viceversa. Ciò viene dimostrato dalla stessa politica di medio-lungo termine del partito, che, già sotto la guida di Umberto Bossi, ha abbandonato completamente ogni velleità secessionista ed ha attuato un grandissimo sforzo di penetrazione in aree del Paese che gli erano estranee, come l’Emilia, la Romagna, la Toscana, le Marche… Si pensi all’emblematico caso di Lampedusa, il Comune più meridionale d’Italia!
Questa politica di espansione del proprio radicamento sociale e territoriale viene confermata, oltre che da quanto avvenuto in Toscana, anche dai risultati delle elezioni sarde e, soprattutto, dalle modalità con cui sono maturati. Già alle politiche dell’anno scorso, la Lega ha stipulato un patto di collaborazione molto stretta con il Partito sardo d’Azione, che ha portato all’elezione, come senatore leghista, del segretario del partito sardista, Christian Solinas. Questo creò enormi polemiche, con l’accusa a Solinas di aver venduto l’anima sardista, in cambio di un seggio senatoriale; la risposta è venuta dai sardi con i risultati delle elezioni regionali: mentre alle politiche i due partiti insieme avevano ottenuto il 10,79%, alle regionali il PSdA ha ottenuto il risultato storico del 9,89% e la Lega da sola addirittura l’11,35%. Una qualche battuta d’arresto di questo crescendo rossiniano del consenso leghista, prima o poi, è destinata ad arrivare, ma, certo, non è giunta con le ultime regionali sarde.
Per tutto quanto detto sopra, infine, il paragone tra la fluidità del consenso al Movimento 5 Stelle e quella del consenso leghista appare improprio, proprio perché il partito di Luigi Di Maio è e rimane, strutturalmente, un partito d’opinione, mentre quello di Matteo Salvini, nonostante il grandissimo consenso d’opinione (da sondaggi, come da voti reali, ovunque ci si sia recati alle urne) conseguito, è e tende a rimanere un partito a forte radicamento sociale.
[1] Qui il termine viene usato nel senso neutro di visione della vita, quanto meno, ma, normalmente, non solo, collettiva e politica, molto ben definita, con coloriture etiche e filosofiche molto pregnanti.
[2] L’espressione, nata in ambito giornalistico e politologico negli anni ‘80 del secolo scorso con riferimento al Partito comunista, indica quel gruppo di persone che sostengono una determinata formazione politica per fedeltà ed identificazione umana, indipendentemente dalla condivisione delle singole scelte, in contrapposizione a coloro che votano sulla base dei singoli provvedimenti attuati, sostenuti o promessi.