Leggende regionali – Valle d’Aosta: Il mite santo dei poveri

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Sant’Orso nacque nella verde Irlanda e, votatosi a Dio, lasciò quella lontana terra, per condurre una vita più austera ad Aosta, tra monti aspri, coperti di nevi e foreste.

Reggeva indegnamente a quel tempo la diocesi valdostana un vescovo di nome Ploceano, che aveva aderito all’eresia ariana e, non contento di perdere la sua amina, voleva trascinare con sé il suo popolo a rovina.

Orso, dunque, l’affrontò con fermezza e prese ad esortarlo perché lasciasse sacrilegi, ingiustizie e soprusi. Quando però s’avvide dell’inutilità dei suoi sforzi per ricondurlo sulla retta via, uscì dalla cinta romana della città, per ritirarsi presso la chiesa di San Pietro del Borgo, dove fondò una comunità religiosa assieme ai canonici della cattedrale, che in gran numero l’avevano seguito.

Mentre Ploceano si ostinava nell’errore, comportandosi assai più da tiranno che da pastore nei confronti del gregge affidato alle sue cure, Orse offriva per la sua conversione penitenze e digiuni, dormendo sulla nuda terra e, cento volte il giorno e cento volte la notte, mettendosi a pregare: e Nostro Signore Iddio l’amava tanto che, quando stava per entrare in una chiesa e la porta era chiusa, mandava il suo angelo ad aprirgli i battenti.

Con le sue mani, il santo lavorava la terra. Aveva piantato una vigna, che dava uva abbondante ed abbondante vino (chi ne beveva devotamente guariva da ogni male) e coltivava un podere, dei cui frutti faceva tre parti, trattenendo per sé la più piccola e lasciando le altre ai poveri e agli uccelli. I primi non mancavano mai alla sua messa ed Orso li provvedeva anche di “sabots”, secondo le necessità di ciascuno; quanto ai passeri, senza alcun timore gli si posavano sul capo e gli beccavano il grano nelle mani.

Un giorno, mentre distribuiva il pane agli uccelli, davanti alla chiesa dei Martiri, un giovane stalliere portò i cavalli a pascolare nei prati vicini. Avendoli per qualche tempo perduti di vista, si mise a contarli e gli sembrò gliene mancasse uno, che pensò subito gli avessero rubato. Angosciato al pensiero del padrone, si affannò a cercare l’animale da ogni parte, senza accorgersi, nella sua disperazione, che gli sedeva in groppa.

Sant’Orso lo vide passare e ripassare nel sagrato, senza scendere da cavallo né togliersi il cappello o mostrare altro segno di reverenza per quel santo luogo; e, impietosito dalle lacrime che gli rigavano il volto, gliene chiese ragione.

«Se voi sapeste!» disse il giovane stordito «Mi hanno rubato il cavallo più bello, quello che il mio padrone predilige. L’ho cercato come un pazzo dappertutto, ed ora mia sola speranza è che voi mi otteniate di ritrovarlo, con le vostre preghiere».

«Entra tu stesso in chiesa, figlio mio, a parlare al Signore; e non passare mai davanti ad un luogo sacro, senza mostrare a Dio il tuo rispetto».

Il giovane ubbidì e poi tornò dal santo, che gli chiese: «Quanti cavalli ha il tuo padrone?».

«Sei».

«E dimmi: quanti ne hai contati al pascolo?».

«Cinque».

«Dove hai preso la bestia che cavalcavi?».

Al garzone sventato s’aprirono gli occhi.

«Sciocco che sono! Mi affanno e mi desolo per la predita d’un cavallo al quale siedo sopra!», esclamò gettandosi ai piedi del santo «Perdonatemi per la mia irriverenza: vi prometto che mai più passerò davanti al sacrario di Martiri, senza entrare a pregare».

Un’altra volta, nel colmo dell’estate, Sant’Orso, trovandosi a Busseyaz, sentì che i contadini che lavoravano i campi si lamentavano della gran calura e della sete che li tormentava. Armato di fede, posò allora il suo bastone su una roccia: e prodigiosamente zampillò dalla pietra quella sorgente limpida e fresca, che scorre ancor oggi in quel punto ed ha il potere di guarire dalle infermità quanti devotamente bevono quell’acqua.

Molti miracoli compì ancora Sant’Orso, per alleviare le miserie umane.

A quel tempo, la valle di Cogne era infestata da ogni sorta di serpi velenose, annidate nella folta foresta che si estendeva nella piana su cui poi doveva sorgere il paese. Il santo la liberò da quel flagello, così che poté esser coltivata, trasformandosi nella verde prateria che porta oggi il nome di Prato di Sant’Orso.

Un’altra volta, il santo salvò il Borgo da rovina. Quell’anno era piovuto ininterrottamente per tanti e tanti giorni che i fiumi gonfi uscirono dagli argini ed il Buthier inondò i campi fino alle mura, minacciando di sommergere le case e la chiesa di San Pietro, in cui a stento si poteva entrare.

La gente cercava scampo nella fuga, piangendo ed invocando aiuto; le grida disperate si mescolavano al fragore delle acque, ai muggiti delle mucche rimaste nelle stalle alluvionate, agli schianti degli alberi sradicati, al crollo degli edifici travolti dalla furia delle onde.

Sant’Orso, allora, si raccolse in preghiera.

«Dio Onnipotente, che per mezzo di Noè avete salvato l’umanità dal diluvio in cui doveva perire, che avete aperto il Mar Rosso davanti ai figli d’Israele, che avete tratto da Giona dal ventre della balena, portandolo in salvo, e accogliendo le preghiere di Elia avete fatto piovere tre anni e sei mesi, e avete teso a Pietro la mano perché non sprofondasse nelle onde, ed ordinato ai venti, alle acque e alle tempeste di placarsi, volgete ora il vostro sguardo pietoso su questo povero popolo che v’invoca ed esaudite la mia preghiera: cessino le piogge e rientri nel suo letto questo terrore che ci distrugge prati, vigne e campi e fa crollar le case».

Ed ecco che subito le acque frenarono il loro impeto e si ritirarono nell’alveo del Buthier, lasciando miracolosamente il suolo tanto asciutto che si sarebbe detto che non fosse scesa dal cielo neppure una goccia.

Ora avvenne che un giorno un valletto della Curia, resosi colpevole di una mancanza per cui temeva grave punizione, cercò asilo in San Pietro fuori mura; Orso, entrando, lo vide in lacrime, inginocchiato davanti all’altare maggiore e, mosso a pietà, gli chiese la causa di tanta afflizione.

L’uomo confessò la sua colpa ed il santo, datagli l’assoluzione, gli promise d’andare lui stesso dal vescovo ad intercedere in suo favore ed ottenergli perdono. Così fece e, prostrato umilmente davanti a Ploceano, lo supplicò d’aver misericordia del suo servo.

L’infido pastore promise; ma appena il santo ebbe lasciato la Curia, ordinò ai suoi uomini di attendere il colpevole alla porta della chiesa di San Pietro, per rinchiuderlo a lui incatenato.

Sant’Orso, ignaro, corse lieto a portare la notizia del perdono. Il valletto uscì confortato dal sacrario dei Martiri; ma, appena fuori, fu messo in catene come il più infame criminale della terra e trascinato a palazzo.

Ploceano lo fece bastonare a sangue e, per finire, ordinò che il suo capo venisse rasato, quindi cosparso di zolfo e di pece bollente. Mezzo morto, l’infelice venne buttato per strada, perché servisse d’esempio e monito ai passanti.

Con l’aiuto di Dio riuscì a trascinarsi fino al Borgo, e il santo pianse, inorridito dall’atroce scempio.

«Figlio mio, quale atroce vendetta per un peccato perdonato dal Cielo!».

«Dio giudicherà il torto che mi è stato fatto», disse il valletto.

Allora un’invisibile mano sgombrò gli occhi del santo dal velo di lacrime che li annebbiava, per mostrargli i disegni divini: ed egli vide l’indegno Ploceano afferrato dai diavoli e trascinato davanti al Tribunale di Dio; vide il valletto mostrare al Giudice le ferite sanguinanti e si sentì chiamare a rendere testimonianza in quella vertenza che le vie ordinarie della giustizia umana non avrebbero saputo dire mai.

«Figliolo» disse «preparati a lasciare stasera questo mondo. Ma, prima, torna da Ploceano e coraggiosamente digli da parte di Dio che tra pochi giorni morirà anche lui, e i diavoli faranno scempio del suo corpo, prima che si presenti al Tribunale divino, davanti al quale non tarderò a raggiungervi io pure. Abbi fede, figlio, perché è scritto: “Dio abbatterà chi violerà il suo tempio”».

Spirò il valletto quella stessa sera e, di lì a poco, l’empio vescovo fu strangolato dai demoni. Orso, allora, detto addio agli amici ed esortati un’ultima volta i confratelli, si preparò a lasciare la terra, per preparazione al Giudizio di Dio.

 

 

Sant’Orso d’Aosta (V secolo – 529), come narra la leggenda, è stato un grande santo, operoso nel seguire sempre e comunque il volere di Dio, agendo giudizio e senso di giustizia e nella sua incredibile semplicità. Purtroppo, i documenti agiografici conosciuti su di lui sono molto pochi; i primi risalgono a un anonimo che scrisse Vitae beati Ursi, del IX secolo circa, ben 400 anni dopo . Con molta probabilità, è grazie alla narrazione orale se la sua memoria non è andata perduta nel corso dei secoli. Sebbene non sia certa la sua data di nascita, quella della morte è più sicura: 1° febbraio 529, stesso giorno del mese della commemorazione di Santa Verdiana (1182 – 1° febbraio 1242).

Il 30 e il 31 gennaio, ad Aosta, si svolge la tradizionale Fiera di Sant’Orso, dedicata al santo monaco, al quale fu altresì dedicata la collegiata omonima, presso la città, fondata intorno all’anno 1000, sui resti di una preesistente basilica paleocristiana. Così, convenzione, lo stesso anno fu scelto anche come anno di nascita della fiera stessa.  Nella tradizione, la fiera è conosciuta semplicemente come in francese come “la foire”, oppure “la millenaria”; oggi vi partecipano più di mille artigiani. La manifestazione è anticipata dalla Foire de Saint-Ours de Donnas, che ha luogo nel borgo storico del vicino paese di Donnas, in bassa Valle d’Aosta, due settimane prima, a metà gennaio. Questo evento è definito localmente come la petite foire (piccola fiera).

Tradizionalmente, il gesto che dà inizio alla foire è il dono che il santo fece ai poveri della città, dei tradizionali sandali sabot, proprio nella zona della Collegiata. Aosta festeggia quindi per due giorni, partendo dalla piazza principale Émile Chanoux, con eventi, rievocazioni ed esposizioni di artigianato tradizionale e prodotti tipici. Queste tradizionali ricorrenze, alla sera, in Valle d’Aosta, prendono in patois valdostano il nome di veillà.

 

 

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