La beatificazione di Giovanni Paolo I mette in crisi chi non lo conosce

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L’occhio travisatore, millantatore e ingannatore oggi imperversa in ogni dove e accade che, anche santi Pastori, vengano strattonati e calunniati. Ciò sta accadendo a Giovanni Paolo I, rimasto un soffio sul trono petrino, appena 33 giorni, dal 26 agosto al 28 settembre 1978, e che oggi viene beatificato in piazza San Pietro da papa Francesco. È accaduto, quindi, che giovedì sera 1° settembre, il programma «La Grande Storia», condotto da Paolo Mieli, abbia rappresentato, con il supporto di Stefania Falasca, giornalista, scrittrice e vicepresidente della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I (della quale è presidente il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin), la figura di papa Luciani con chiari lineamenti progressisti, senza considerare la sua vita ricca di eroiche virtù e la sua caratura catechetica secondo una formazione squisitamente cattolica.

Questa beatificazione, a differenza di Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, non è realizzata per canonizzare il Concilio Vaticano II, ma per nutrire maggiormente l’elenco dei Papi del Novecento (il secolo che ha visto una trasformazione rivoluzionaria del volto ecclesiastico) e per fare un atto di giustizia, visto che Giovanni Paolo I visse costantemente una vita santificante e santificatrice. Inoltre, il Vaticano spera di porre, con questa decisione, una chiusura definitiva alle voci che corrono, da quando morì Papa Luciani in poi, sulla sua misteriosa scomparsa, elemento che Stefania Falasca, a chiusura della trasmissione di Rai 3, ha marcatamente sottolineato, affermando che nell’archivio della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I non esistono documenti che possano ricondurre in qualche modo ad una morte sospetta.

Tuttavia, i dubbi rimarranno sempre – un po’ come accade per il Terzo Segreto di Fatima, un capitolo non certo chiuso dopo la parziale rivelazione data al mondo da Giovanni Paolo II nell’anno 2000 – anche perché troppi elementi non tornano sui resoconti fatti dalla Santa Sede, dubbi supportati anche dalle manovre di personaggi in settori dai poteri occulti, che all’epoca circolavano nelle alte sfere vaticane: uomini dal prestigio internazionale con i loro entourage, come, per fare semplicemente due nomi, lo statunitense Paul Marcinkus (1922-2006), a capo dello IOR (Istituto per le Opere Religiose), e il Segretario di Stato Jean-Marie Villot (1905-1979), che dovevano difendere le proprie posizioni, i propri affari, i propri segreti e il proprio “onore”. L’opera di risanamento che Albino Luciani aveva già iniziato prima come Vescovo di Vittorio Veneto e poi come Patriarca di Venezia, sarebbe proseguita in Vaticano e gli interessati ben lo sapevano. Infatti, Albino Lucani si era già distinto come intransigente sia sulla questione del Referendum sul divorzio, sia nell’affrontare la tragica situazione di sporche speculazioni finanziare del Banco Ambrosiano.

Papa Luciani era angustiato dalle cospirazioni massoniche che si manifestavano in seno alla Chiesa e si coagulavano con maggiore insistenza là dove si concentrava l’interesse economico, come accadde con il clamoroso scandalo del Banco Ambrosiano, una vicenda oscura che determinò anche degli omicidi, come quello celebre di Roberto Calvi, che il 18 giugno 1982 venne trovato legato a dei macigni sotto il ponte dei Frati neri di Londra. D’altro canto, non bisogna dimenticare che, dal punto di vista dottrinale, ampi settori progressisti nella Chiesa ritenevano la possibilità di dialogo tra cattolici e massoni.

L’ostilità di Luciani contro la massoneria era forte ed attiva: negli anni del patriarcato lagunare divenne amico di monsignor Antonio Mistrorigo (1912-2012), per trentun anni vescovo di Treviso, pastore particolarmente antimassonico. Quando si incontravano parlavano spesso di questo scottante problema, tanto insidioso quanto invasivo.

Sugli ambienti massonici, compresa la famosa Loggia P2, Luciani aveva approfondito la conoscenza, disponendo apposite indagini; subito dopo la sua elezione a Pontefice, il periodico «O.P.» (Osservatore Politico) pubblicò un ampio servizio riportando un elenco di 131 ecclesiastici iscritti alla Massoneria, fra cui compariva anche il Segretario di Stato Villot. Direttore di «O.P.» era Mino Pecorelli (1928-1979), ucciso in circostanze misteriose un anno dopo l’elezione di Giovanni Paolo I.

A metà pontificato, cioè a quindici giorni dalla sua elezione, il Papa disse al cardinal Villot: «“Mio primo dovere è di liberare la Chiesa dalla massoneria” […].  Se ha detto questo a Villot, si può pensare che lui l’ha ripetuto a Baggio e ad altri. Il Cardinal Villot fu sempre sospettato di essere massone o almeno amico dei massoni»[1].

Proverbiale fu l’Humilitas di papa Luciani, suo motto episcopale. Semplice, amabile, dolce e sorridente, un sorriso genuino, che incantava le anime. Tutto ciò non ledeva il suo coraggio e la sua determinazione, essendo molto rigoroso su regole, principi e valori. Purtroppo, ingenuamente o illusoriamente, pensò che il Concilio Vaticano II avrebbe agito soltanto da un punto di vista pastorale, non minando le fondamenta del Credo, neanche in termini liturgici.

Qualcuno, nel mondo tradizionalista, punta il dito su Giovanni Paolo I sul discorso del suo allineamento al Novus Ordo, senza considerare che solo alcune eccezioni proseguirono nel celebrare il Vetus Ordo ed un unico Vescovo si fece fermo paladino della Santa Messa di sempre, pagando di persona, monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991). Dunque, tutto il resto sarebbe da rigettare della Chiesa, compreso il riconoscimento reale delle virtù eroiche nei processi di beatificazione e canonizzazione? Sarebbe un assurdo logico, la Chiesa è madre e non matrigna e, soprattutto: «Qui sine peccato est vestrum, primus lapidem mittat» (Gv 8,3). La Chiesa è cattolica, ovvero, universale, e non settaria come l’intellettualismo liberale e/o la religiosità protestante. Tali atteggiamenti, infatti, riconducono ad una modalità distorta di leggere fatti ed eventi storici.

Giovanni Paolo I fu sempre un grande amante della corretta formazione catechetica. I primi rudimenti in questo senso risalgono alla sua prima infanzia, nella povera casa di Canale d’Agordo, in provincia di Belluno, dove nacque il 17 ottobre 1912 e dove patì letteralmente la fame. La sua prima catechista fu la madre, Bortola Tancon ed entrò ad appena 11 anni nel Seminario interdiocesano minore di Feltre e in seguito, nel 1928, nel Seminario interdiocesano maggiore di Belluno; da allora, fino alla fine dei suoi giorni, il catechismo di San Pio X divenne il suo imprescindibile riferimento.

Imbevuto di Fede, ha espresso una dedizione incondizionata alla Chiesa, che ha amato e servito infaticabilmente, fino a dare la vita per Lei. Parimenti fu immenso il suo amore per la salvezza delle anime: ad esse insegnava con fermezza e premura insieme. Un profilo ben delineato il suo, non equivoco, e che mieteva devozione e simpatia, soprattutto fra la gente che egli conquistò ampiamente quando divenne  Patriarca di Venezia, carica che condivise con un altro conterraneo divenuto santo Pontefice, Pio X (1835-1914).

Lascia scritto il patriarca Albino Luciani il 19 aprile 1959 a proposito del viaggio, che all’epoca ebbe molta risonanza, della salma di papa Sarto a Venezia, avvenuto fra il 12 aprile e il 10 maggio del 1959:

«“Tornando” a Venezia, Pio X ha destato tanto fervore anche da noi. Ne spero bene per le anime. Spero, soprattutto, che si desti l’attenzione e l’impegno della diocesi su due punti, che hanno costituito una vera “passione” nella vita del nostro grande e santo papa: il catechismo e l’eucaristia. […] Vuol vedere come vanno le cose nel “suo” Veneto. Non vanno male: c’è la fede di una volta, ci sono le buone tradizioni. Tuttavia, qualcosa preoccupa: […] circolano idee, che sono tutt’altro che venete e cattoliche, ci sono emigrazione, stampa cattiva, cinema non serio ed altri guai. Nei santuari nostri, già cari al santo, di Monte Berico, di Motta, delle Cendrole e in cento altri, la Madonna china mesta la fronte. A questa vista, dalla sua urna in S. Marco, il vecchio papa ci fa pervenire il suo grido di riscossa: Putei, tignì duro[2]! Fermi, alla fede dei padri! Saldi, all’istruzione religiosa e alla frequenza dei sacramenti!»[3].

Giovanni Paolo I è rimasto nei cuori di molti cattolici: è stato un lampo di speranza in una Chiesa entrata in profonda crisi di fede, di eticità e di vocazioni, con una civiltà occidentale sempre più materialista, cinica ed edonista, che andava disprezzando ogni giorno di più le radici cristiane d’Europa, idolatrava il sistema statunitense e si lanciava verso un laicismo puro ed ingordo. Così, quel volto di serafino, che faceva pensare più al cielo che alla terra, divenne per i cattolici attesa fiduciosa di giorni migliori sia per la Chiesa che per il mondo…

«Chi l’ha conosciuto da vicino», dichiarò il vescovo di Belluno-Feltre, Maffeo Giovanni Ducoli (1918-2012), «può testimoniare che quel sorriso – segno manifesto che il suo sguardo era fisso in Dio – era la sua palese gioia interiore e non fu mai debolezza di carattere. La sua timidezza derivava dal non voler apparire, ma il temperamento era forte perché faceva sempre vincere i principi. Ho motivo di credere, per averlo avvicinato molti anni, che il “Papa del sorriso” non sarebbe mai sceso a compromessi sui problemi di fondo. E quello che voleva, da buon montanaro lo voleva fermamente»[4].

In questi giorni è uscito un libro che vuole fare chiarezza storiografica attraverso fonti di prima mano, si tratta di Giovanni Paolo I. Una vita per la fede di Cristina Siccardi, pubblicato nel 2012, nell’Anno della Fede proclamato da Benedetto XVI, e tradotto anche in lingua polacca, ma oggi rivisto e aggiornato nella collana «Uomini e donne» (Paoline Editoriale Libri, € 10,90). Si legge nella biografia:

«In una intervista, raccolta, in occasione dei preparativi per la visita di Paolo VI a Venezia nel settembre del 1972, da Sergio Trasatti per “L’Osservatore romano”, il cardinale Luciani, alla domanda: “Qual è, a suo giudizio, il più bel dono spirituale, che la comunità ecclesiale veneziana potrebbe presentare al Papa, in un momento così complesso della vita della Chiesa postconciliare”», così rispose: “Ella dice benissimo “momento così complesso”. Ma qual è l’elemento più “complessante”? A mio umile giudizio, lo sbandamento nella fede, assai diffuso nel mondo cattolico. Dove, da una parte, è dato vedere, come sempre, la Chiesa “del papa e dei vescovi”; dall’altra se ne vede spuntare, qua e là, un’altra, quella che i tedeschi chiamano “Professorenkirche”. Per essere – come dicono – moderni, autonomi, non integristi, non integrati nel sistema, alcuni non vogliono stare alla prima ma cascano senz’accorgersi nelle braccia della seconda. Si respinge o si critica il magistero ecclesiastico ma poi si trangugia a occhi chiusi quanto ammannito da riviste, teologi e giornalisti in nome della scienza e del progresso. Io mi inchino davanti ai giornalisti divulgatori della verità, ritengo provvidenziale la missione dei teologi, che sono dottori nella Chiesa (…). Ciò premesso, penso che il più bel dono spirituale da offrir al Papa, in questo momento – assieme alla preghiera per la sua difficile missione – sia una comunità come quella, che desiderava san Paolo, con fedeli “perfettamente uniti, d’uno stesso pensiero e del medesimo sentire” (1Cor 1,10). Fedeli saldi e fermi nella fede, non, viceversa, alla guisa di “fanciulli sballottati e portati da ogni vento di dottrina, secondo i raggiri degli uomini e la loro insidiosa astuzia” (Ef 4,14)”

 

 

Nel 1978 già si registrava un’evidente e massiccia perdita di vocazioni e vere e proprie defezioni, con riduzioni allo stato laicale di molti sacerdoti e l’abbandono della vita consacrata da parte di religiosi e religiose, ma si perdevano anche i fedeli, con una percentuale sempre più alta di persone che disertavano la Messa domenicale e le parrocchie diventavano sempre meno punto di riferimento per le famiglie, famiglie che piano piano si disgregavano, mentre divorzio e aborto diventavano sacrileghe leggi statali»[5].

Severo nei confronti dei preti risposati, respinse con fermezza l’adozione da parte dei cattolici delle metodologie di critica economica e politica propugnate dai movimenti di ispirazione marxista, opponendosi pubblicamente a ogni ipotesi di «apertura a sinistra» o di rottura dello schieramento cattolico a favore dei partiti socialista o comunista in occasione delle scadenze elettorali. Nel corso degli anni Settanta, ribadì più volte l’inconciliabilità tra cattolicesimo e marxismo, in cui scorgeva un programma di radicale scristianizzazione.

Come patriarca di Venezia visse le tensioni sociali e politiche dominate dalle azioni terroristiche delle Brigate Rosse e dalle liberalizzazioni etiche, che ben presto consolidarono una significativa frattura tra il Patriarca e quella parte del clero e del laicato cattolico – nel 1974 sciolse persino la FUCI, gli universitari cattolici che si erano espressi per il No al referendum abrogativo – più incline a sperimentare nuovi criteri di azione culturale e religiosa. Sul versante ecclesiale polemizzò con le posizioni progressiste, denunciando il «complesso antiromano» di molti teologi che minacciavano sia l’unità della Chiesa, sia la fede della popolazione.

Dal punto di vista pastorale anche a Venezia, come già aveva fatto a Vittorio Veneto, Luciani sottolineò la centralità della parrocchia e sollecitò l’impegno sociale dei cattolici, seguendo la tradizione del cattolicesimo veneto.

Contrario allo spirito pluralista e interreligioso, a differenza di coloro che oggi cercano di trascinarlo, con interpretazioni manipolatorie, in questa direzione, egli ebbe un interessante scontro con una persona propensa al relativismo religioso:

«E fu appunto conversando a tavola che l’altrieri mi venne quasi fatto di persuadere un ospite. Questi si dichiarava – tra un boccone e l’altro, tra un sorriso e l’altro – un gran fautore del pluralismo nella fede.

«“Per me è chiaro”, diceva, “nessuno ha in tasca tutta la verità cristiana. Ognuno di noi ne ha solo un pezzetto e bisogna lasciarglielo godere in pace. L’unità la fa solo Dio dall’alto, mettendo insieme i vari pezzetti e facendone la sintesi”.

«“Ohimé! – risposi – scusa, ma la tua idea di Dio e di verità sembra a me quella degli orbi dell’India”. “Quali orbi?”, dice lui. “Aspetta!”.

«Mi alzo, esco e torno con in mano Quattro libri di lettura di Lev Tolstoj. “Lascia che te ne legga una sola pagina”. E leggo.

«Gli elefanti del re (favola). Un re indiano ordinò di radunare tutti i ciechi e, quando ciò fu fatto, disse di mostrar loro i suoi elefanti. Uno tastò la gamba, un altro la coda, un terzo la radice della coda, un quarto il ventre, un quinto il dorso, un sesto le orecchie, un settimo i denti e un ottavo la proboscide.

«Poi il re fece venire i ciechi al suo cospetto e domandò: “A chi somigliano i miei elefanti?”.

«Il primo cieco rispose: “I tuoi elefanti somigliano alle colonne”. Era quello che aveva tastato le gambe. Il secondo disse: “Somigliano a una scopa”. Era quello che aveva tastato la coda. Il terzo disse: “Somigliano a un ramo”. Era quello che aveva tastato la radice della coda. Quello che aveva tastato il ventre disse: “I tuoi elefanti somigliano a un mucchio di terra”. Quello che aveva tastato i fianchi disse: “Somigliano a un muro”. Quello che aveva tastato il dorso disse: “Somigliano a una montagna”. Quello che aveva tastato le orecchie disse: “Somigliano a un ariete”. Quello che aveva tastato i denti disse: “Somigliano alle corna”. Quello che aveva tastato la proboscide disse: “Somigliano a una grossa corda”. E tutti i ciechi cominciarono a disputare fra loro e a litigare.

«Deponendo il libro, dico: “Senti, a me ripugna pensare che Dio abbia mandato suo Figlio a dirci: “Io sono la via, la verità e la vita” con il bel risultato di farci poi trovare tutti nella situazione di quei ciechi, con in mano ciascuno una misera particella di verità, diversa dalla particella degli altri. Che noi si conosca le verità della fede solo per analogia, sì; ma orbi fino a questo punto, no; mi pare indegno sia di Dio sia della nostra ragione!”.

«L’inaspettata teologia fatta a base di code e schiene di elefante, non convinse del tutto l’ospite, ma lo scosse, facendogli dire: “Toh! Questo nessuno me lo ha detto!”. “Non lo sai? – risposi – A volte sono i paperi, che menano le oche da bere. Dove Rahner non riesce con i suoi volumoni di teologia, può sottentrare Tolstoj con la sua favoletta”»[6].

Ebbene, le sue umili “favolette” erano spesso convincenti e chissà che questa beatificazione non solletichi l’interesse di conoscere realmente chi fu il beato Giovanni Paolo I, Papa del Novecento, mentalmente e spiritualmente più vicino a san Pio X che a Giovanni Paolo II.

 

[1] Don Emanuele du Chalard, uno dei primi collaboratori di monsignor Marcel Lefebvre, pronunciate durante il III Convegno di Studi Cattolici, svoltosi a Rimini, nell’Ottobre del 1995.

[2] «Ragazzi, tenete duro!».

[3] A. Luciani – Giovanni Paolo I,  Opera omnia, vol. 2, a cura del Centro di spiritualità e di cultura «Papa Luciani», S. Giustina Bellunese, Belluno, Edizioni Messaggero, Padova 20112 p. 36

[4] M. Ducoli, Prefazione in N. Scopelliti – F.Taffarel, «Lo stupore di Dio». Vita di papa Luciani, Ares, Milano 2006, p. 9.

[5] C. Siccardi, Giovanni Paolo I. Una vita per la fede, Paoline Editoriale Libri, Milano 2022, pp. 10-11.

[6] Ivi, pp. 18-19.

 

 

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