Editoriale “Radicati nella fede” – Anno II n° 7 – Luglio 2009
Carissimi,
il 19 giugno scorso il Santo Padre, nella solennità del Sacro Cuore di Gesù, ha indetto un “Anno Santo per i Sacerdoti”, in occasione del 150° anniversario della morte di San Giovanni Maria Vianney, il santo Curato d’Ars.
Splendida la lettera con cui il Papa annuncia questo tempo di Grazia. Lettera indirizzata principalmente ai sacerdoti, perché ricordino o ri-scoprino chi sono.
Speriamo che ciò che il Papa autorevolmente ha scritto, non finisca nel “dimenticatoio”, o peggio che non venga letto con i filtri ideologici di chi, non amando la Tradizione della Chiesa, non perde occasione per sfigurare tutto ciò che è richiamo al passato della vita cristiana, e proporlo trasformato e falsato da commenti opportunamente pensati perché nulla cambi nella Chiesa di Dio.
Noi al contrario, pensiamo che il richiamo del Papa vada ascoltato, proprio perché autorevolmente grida al recupero dell’identità sacerdotale, che i santi preti, primo fra tutti il Curato d’Ars, hanno testimoniato.
Noi al contrario pensiamo che solo in una impostazione tradizionale si possano vivere quegli aspetti essenziali del sacerdozio cattolico che il Papa ricorda nella sua lettera: e questo è urgente, pena la scomparsa della vita cristiana, quella autentica, nelle nostre terre di antica cristianità!
Per questo ci siamo permessi di riferire alcuni brani della lettera di Benedetto XVI ai sacerdoti perché siano per tutti di aiuto nel recuperare i punti essenziali di una vita cattolica: ciò che è vero per i preti, è vero anche per i fedeli. Sapendo chi è il prete, i fedeli sapranno meglio cos’è la vita cristiana e su cosa si fonda. Se è salvo il prete, è salvo anche il popolo cristiano. Se è confuso il prete, è confuso anche il suo popolo. Se il prete si perde, Dio non voglia!, il popolo è allo sbando.
Signore mandaci molti e santi sacerdoti.
Il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”.
Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete è grande!… Se egli si comprendesse, morirebbe… Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia…”.
E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote… Dopo Dio, il sacerdote è tutto… Lui stesso non si capirà bene che in cielo”.
Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore… Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra… Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni… Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie… Il prete non è prete per sé, lo è per voi” [..]
Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia.
“Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare” – spiegava loro il Curato – “Si sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera”.
Ed esortava: “Venite alla comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui… “È vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno!”.
Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che “non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione… Contemplava l’Ostia amorosamente”.
“Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio”, diceva.
Era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: “La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”.
Ed aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”.
Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale.
I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica.
Seppe così dare il via a un circolo virtuoso.
Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno.
Si diceva allora che Ars era diventata “il grande ospedale delle anime”. “La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!”, dice il primo biografo.
Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”. “Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”.