Il Codice Napoleonico secondo una lettura storico-giuridica oggettiva

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Il 23 ottobre scorso, si è svolto al Palazzo dei Nobili di Bene Vagienna (CN) il Convegno internazionale «“Fu vera gloria?” Napoleone e il Piemonte. Guasti ed eredità, tra cospirazioni, miti e realtà». Tra gli intervenuti si è distinto il Conte Gustavo Mola di Nomaglio, Vice Presidente del Centro Studi Piemontesi e prestigiosa firma di «Europa Cristiana». Già il titolo del suo intervento («Liberté, égaulité, fraternité? 1798-1814 in Piemonte: dall’oppressione giacobina alla dittatura Napoleonica») è «molto chiaro», come lo stesso moderatore, Attilio Offman dell’Associazione Culturale Amici di Bene – Onlus, ha sottolineato in sede di presentazione del relatore.

In attesa che l’Associazione Culturale Amici di Bene – Onlus pubblichi gli Atti del Convegno e, quindi, di poter leggere la relazione completa, con il materiale scientifico a corredo, «Europa Cristiana» ritiene di doverne mettere a disposizione dei propri lettori, nel quadro dell’Approfondimento «Come la Rivoluzione francese e Napoleone hanno prodotto la civiltà contemporanea», l’intervento orale, il quale è, oltre che brillante nello stile, ricchissimo di spunti e penetrante dardo nel clima del politicamente corretto.

L’incipit è dedicato al concetto di codificazione come presunto progresso legislativo. A questo proposito, ci sia permesso sottolineare, a conferma di quanto sostenuto nell’intervento, come il concetto stesso di Codice sia l’anticamera del Positivismo giuridico, del passaggio dal concetto di legislazione come scienza a quello della volontà sovrana del legislatore.

Nella tradizione dell’Antica Roma ed in tutto quello che i rivoluzionari francesi chiamavano sprezzantemente «Antico Regime», il diritto è sempre stato visto come preesistente all’opera legislativa, che ne era un’attuazione per una sua più facile attuazione nella situazione contingente di spazio e di tempo. Antiteticamente a quanto oggi percepito, il Diritto non era visto come una limitazione all’agire umano, ma come l’insieme dei principi e delle regole che permettono di rendere tale agire più efficace, anzi la vita stessa era considerata come la concreta attuazione del Diritto; esso non si identifica con la norma regolatrice, ma è lo spirito stesso dell’agire, non è un freno, ma un agente propulsore del vivere, familiare, economico, politico…

Nessuno, prima dell’Illuminismo, salvo rare quanto deprecabili eccezioni, si è mai sognato di poter “creare” il diritto; esso, soprattutto dopo la sua cristianizzazione, divenne scudo delle libertà contro gli eventuali eccessi del potere politico. L’attuazione del Diritto previde il proliferare di normative a tutela di territori, città, corporazioni… Nell’ottica della vivificazione di quello che noi oggi potremmo chiamare Diritto naturale, ogni comunità si dava norme interne, che, se da un lato ponevano regole di comportamento a ciascuno dei suoi componenti, dall’altro ne tutelavano i diritti, la libertà e gli interessi materiali ed immateriali, con la creazione, in tutta la Res Publica Christiana di una diversificazione di normazioni, rispecchiante la varietà di modi di vivere.

Tale rigoglio di vita giuridica è sempre stato descritto dai fautori del totalitario sistema uscito dalla Rivoluzione francese come un caos ingovernabile. Questa lettura deriva dall’idea di ordine che promana dall’Illuminismo: c’è ordine laddove c’è qualcuno che impone la sua volontà, possibilmente tramite il monopolio del diritto e della violenza “legale”; fuori da questa situazione non c’è, secondo costoro, che anarchia.

Neppure l’evidenza storica li convince della possibilità di un ordine che nasca dalla spontanea armonia generata dalle libere esistenze secondo natura. Eppure è successo ed è durato secoli, finché la violenza armata di una minoranza rivoluzionaria non vi ha posto fine, in un’orgia di irrazionalistica imposizione totalitaria della volontà, contro ogni logica, salvo chiamare tutto ciò trionfo della Ragione, con un’impostura che oltrepasserebbe i limiti del ridicolo, se non fosse la voce di una tragedia, che nel corso di due secoli (dalla fine del XVIII a quella del XX) è costata la vita ad oltre cento milioni di persone (i numeri sono ancora oggetto di ricerca da parte degli storici, ma la cifra citata è estremamente prudenziale e riduttiva), assassinate da chi ha creduto alle ideologie che sono discese dall’Illuminismo.

Nell’Antico Regime, al netto dei crimini e della malvagità dei singoli, sempre presenti (dogma del peccato originale), l’organizzazione sociale era impostata sull’ordine naturale e le libertà rivendicate lo erano perché strumentali all’assolvimento del proprio dovere e ad una migliore attuazione del Diritto, più che di caos si trattava di armonica differenziazione, con un’applicazione della giustizia certamente più vicina al sentire delle popolazioni che vi erano soggette rispetto ai codici scritti a Parigi o nelle capitali “sorelle”. Certamente, col decorrere dei secoli e la sedimentazione delle normative, la certezza del diritto poteva venire in qualche modo incrinata e si rendeva necessaria un’opera di riordino, che normalmente veniva svolta dalle Costituzioni, Imperiali, Regie, Ducali…

Il Conte di Nomaglio cita quelle sabaude emanate nel 1723 e ripubblicate nel 1729 dal Re Vittorio Amedeo II (1666-1732), per le quali «non si sentiva assolutamente il bisogno […] di un rifacimento radicale», tanto come dire che non c’era nessun bisogno del Codice Napoleonico, che, anzi si è dimostrato un atto di violenza mal tollerato dalle popolazioni, che si sono viste private delle loro antiche libertà. Ma questo non è dovuto ad una migliore “fattura” delle Costituzioni rispetto al Codice, quanto alla loro differente ontologia, che non poteva che condurre ad un tale esito.

Le Costituzioni sono unicamente raccolte delle normative esistenti, che vengono ordinate e le cui modifiche sono solo quelle necessarie all’armonizzazione; ne viene salvaguardato lo spirito, vengono mantenute le libertà per regioni, Comuni e Corporazioni, si rispettano le identità presenti nel Regno. In altre parole, si pone unicamente rimedio agli squilibri che la spontaneità dei secoli può avere prodotto, senza nessuna pretesa di “inventare” ciò che le popolazioni già conoscevano ed amavano: il “loro” diritto.

Il Codice, invece, è la pretesa di abolire ed azzerare tutto il diritto precedente. Si può dire che con il Codice è il Diritto che comincia a morire per lasciare il posto all’arbitrio del legislatore. Come abbiamo visto il Diritto è concepito, fin dagli albori di Roma come preesistente e vincolante anche il legislatore; quella giuridica per i romani e per i cultori del Diritto dell’Antico Regime è una scienza naturale, è lo studio di un essere immateriale, ma non creato dall’uomo. La Giurisprudenza, così intesa, è, quindi, la competenza in una scienza specifica, da juris (=del diritto) e prudentia (=conoscenza saggia e prudente).

A partire dall’idea stessa di Codice, invece, diventa “diritto” ogni volontà del legislatore, senza alcun limite al suo arbitrio ed esso viene fatto coincidere con le leggi emanate. In questa logica non è diritto nulla che non sia stato «posto», quindi creato dalla volontà “onnipotente” del detentore del potere legislativo: è il Giuspositivismo, da jus (=dirittto) e positum (=posto). Il diritto, dunque, perde ogni sua esistenza autonoma ed il suo studio diviene lo studio delle regole tecniche che servono a tradurre la volontà del detentore del potere in norma, senza nessun riguardo al contenuto. Il diritto, quindi, muore ed il suo nome è preso dalla codificazione dell’arbitrio.

Anche se il teorizzatore del Giuspositivismo è il boemo Hans Kelsen (1881-1973), il suo iniziatore è certamente Napoleone.

 

 

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