Gina Lombroso Ferrero, pensatrice antimoderna

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Con Gina Lombroso[1] siamo di fronte al caso, non raro, di una personalità e di un’opera ignorata dalla pubblicistica d’ispirazione femminista, la quale pone altrimenti come eroine della storia delle donne figure men che mediocri, futili se non decisamente squallide (come Simone de Beauvoir). Ove se ne parli, si liquida la Lombroso come subalterna al padre Cesare, e divulgatrice delle sue tesi positivistiche. Si assiste così al paradosso di una scienziata, riconosciuta internazionalmente, che presso di noi è relegata in una dimensione aneddotica, e di psicologismi spiccioli, che non fu certo la sua. Nel migliore dei casi, si fa intendere “quello che avrebbe potuto essere”, se si fosse ribellata al padre, e magari anche al marito (lo storico Guglielmo Ferrero) Cos’altro doveva fare, Gina Lombroso Ferrero, più che pubblicare articoli e libri di ricerca e divulgazione scientifica tradotti in più lingue, per dimostrare di essere se stessa, e non un’ancella della dinastia? E cosa, del resto, doveva fare la sorella Paola Lombroso Carrara (1871/1954), più che essere giornalista di successo, pedagogista, ideatrice del Corriere dei piccoli, autrice di libri per l’infanzia e non, e promotrice delle Bibliotechine rurali di Zia Mariù (suo pseudonimo)?

 

Gina e Paola Lombroso con i genitori

 

Ma tant’è. Si proietta su di esse un pregiudizio – figlie di tale padre![2] – facendone la chiave interpretativa della loro vita ed opera: il partito preso della narrazione femminista non accetta delle sorelle Lombroso proprio il loro pensare ed agire indipendente, né vittimistico né esibito, la loro identità professionale, il loro agire nella società, ciascuna nel suo campo, senza rivendicazionismi e scorciatoie. Il che, anche sotto questo profilo, le rende due figure esemplari e pertinenti rispetto allo sconcertante panorama attuale.

 

Le tragedie del progresso

Gina Lombroso fa parte a pieno titolo dell’area dei pensatori antimoderni, che nei tempi convulsi e magmatici tra le due guerre videro precocemente le tendenze perverse e distruttive insite nel “progresso” ed ebbero il coraggio di propugnare quelle vie alternative che oggi sono riscoperte e ormai tardivamente invocate.

La formazione di Gina Lombroso (laurea in lettere e medicina), fu tutt’altro che imposta e predeterminata. Dalla collaborazione col padre, Gina acquisì il rigore, la sicurezza metodologica e il coraggio di portare avanti un’indagine ed una riflessione originale, senza complessi reverenziali nei confronti delle ideologie affermatesi storicamente, sia il socialismo nella sua versione sovietica che il liberismo democratico e statalista. Dalla frequentazione giovanile con la rivoluzionaria Anna Kulischoff, Gina trasse una visione appassionata e realistica della condizione operaia, che doveva costituire il fondamento ideale e morale della sua critica sociale e delle sue utopie antimoderne. Infine dal marito -lo storico Guglielmo Ferrero, altra figura d’intellettuale antiaccademico e cosmopolita- potè attingere una visione imperniata sugli aspetti economici e politico-istituzionali delle grandi crisi della storia.

Queste componenti vanno a confluire nella sua opera più impegnativa, da Le Tragedie del Progresso Meccanico a Le Retour à la Prospérité [3].

Nella prefazione al primo[4], è Gina stessa a ripercorrere le origini del testo come punto di arrivo della sua storia intellettuale: esso segna un posizionamento audace e perentorio della Lombroso nei confronti dell’idea stessa di progresso, cogliendo nell’industrialismo accentratore il prodotto di una perversione della modernità e la causa di processi distruttivi per la specie stessa. L’opera combina una visione storica ed antropologica con un’analisi socioeconomica che spazia dall’antichità fino al XX secolo, facendo altresì riferimento ai testi dell’economista tedesco Werner Sombart (1863/1941).

Ma è una fase precedente della saggistica di Gina Lombroso che costituisce per l’ufficialità femminista la pecca imperdonabile, quella per cui la si dà per “controversa” e si chiama in ballo l’interiorizzazione della figura paterna. Si tratta dei testi sull’identità femminile. Naturalmente la pecca è nell’occhio che guarda, e che vede l’emancipazione delle donne nella società solo come processo antagonistico, d’inimicizia verso l’uomo e –tendenzialmente- di rifiuto dell’identità femminile stessa. Identità e valore di cui le sorelle Lombroso non avevano a dubitare, e che divenne oggetto dei libri pubblicati da Gina dal 1917 al 1927, tra i quali L’anima della donna [5] fu il più diffuso e tradotto in quasi tutte le lingue europee.

 

L’anima della donna

Intanto, è impossibile trovare in tali testi traccia di quella “inferiorità femminile” circa la quale l’autrice avrebbe subìto e trasmesso la pretesa impostazione paterna. Caso mai il contrario. Alla donna –anticipiamo- per un privilegio di natura sarebbe toccata un’anima più complessa, più integrale, più razionale nell’uso delle risorse. Tanto che la sua collaborazione con l’uomo sembra talvolta –come verso i bambini- la sollecitudine verso un essere più bisognoso, e anche più semplice.

Rispetto agli “enigmi più oscuri” [6] che segnano la storia della condizione femminile e del rapporto uomo- donna, la riflessione della Lombroso si pone dichiaratamente un obiettivo chiarificatore, fattivo, volto alla valorizzazione al positivo delle differenze, agli orientamenti spirituali che si possono intuire come caratteristici dei due sessi. Essa distingue tra le differenze quantitative dell’intelligenza maschile e femminile, che sono dovute a fattori storici eliminabili e da eliminare (difficoltà ed impedimenti per l’accesso agli studi, all’operatività pubblica e nel lavoro), e quelle di qualità e direzione, differenze che appaiono predisposte all’integrazione e ad esiti complessivi più efficaci ed elevati. La parte propositiva de L’anima della donna evidenzia quindi “Intelligenza e amore”, come doti e principi ispiratori dell’anima femminile. La funzione generativa nella specie, è interpretata in termini fenomenologici:

«La maternità determina nella donna un alterocentrismo fondamentale, questo ne impregna la vita, imprime alla sua mente come al suo cuore differenze radicali, tanto nelle donne che hanno figli come in quelle che non ne hanno, tanto nei paesi dove da secoli la donna studia, come in quelli in cui non ha mai studiato.» (p.6)

 

 

[1] Diamo qui solo un accenno di dati biografici di Gina Lombroso, altrimenti reperibili in rete (pur con i limiti che abbiamo detto). Nata nel 1872 da

famiglia di origini ebraiche, figlia di Cesare Lombroso, fece a Torino studi universitari di lettere e medicina, collaborando precocemente col padre in ricerche e testi. Iniziò a pubblicare dal 1896, spaziando da studi in campo antropologico a quello economico e sociologico Sposò nel 1901 lo storico e saggista Guglielmo Ferrero (1871/1942), ed ebbe due figli. Dopo anni vissuti a Firenze, in crescente dissenso col regime, i Ferrero furono costretti nel 1930 all’esilio a Ginevra, ove Gina continuerà la sua opera pubblicistica di rilievo internazionale, curando altresì le edizioni Capolago. Morì nel 1944. Il Fondo Gina Lombroso Ferrero di scritti, documenti e materiali di studio è conservato a Firenze, presso l’Archivio Contemporaneo del Gabinetto G.P. Vieusseux.

[2] In tale chiave è svolto sin dal titolo il libro di Delfina Dolza, Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra ‘800 e ‘900. Ed.Franco Angeli, 1991.

[3] Le Tragedie del Progresso Meccanico, origine, ostacoli, trionfi, sconquassi del Macchinismo ed. Bocca, 1930; Le Retour à la Prospérité ed.Payot 1933.

[4] «L’idea di sfatare il mito del macchinismo è nata in me nella prima giovinezza, provocata dall’angoscia indelebile di assistere impotente alla prima crisi economica che traversò l’Italia; dall’assistere alle lunghe teorie dei primi emigranti che disperati e muti si avviavano al di là del mare alla ricerca di pane che sostenesse le loro forze,  proprio mentre governo, scienziati e pubblico inneggiavano al moltiplicarsi dei cavalli-vapore e delle tonnellate di carbone che orgogliosamente l’Italia andava impiantando ed importando.» Questa impressione giovanile ispirerà anche i testi sulla condizione femminile.

[5]L’anima della donna, I ed. Zanichelli,1920; II ed. Zanichelli, 1921; III ed. in II volumi 1. Gli enigmi più oscuri, 2. Intelligenza ed amore, Zanichelli, 1926. Le citazioni sono da quest’ultima edizione.

[6] Così s’intitola la prima parte de L’anima della donna.  Cinquant’anni dopo, l’antropologa Ida Magli intitolerà il suo testo La donna, un problema aperto (Vallecchi 1974). La difficile leggibilità dello sviluppo storico ed antropologico del rapporto uomo-donna è radicata in epoche remote di distacco della specie dalla natura e di formazione delle strutture di potere all’interno delle comunità umane.

(1 – continua)

 

 

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