La tragica secolarizzazione che si è abbattuta sull’Europa nello scorso secolo per ragioni sia politico-culturali che per scelte inerenti ai nuovi indirizzi presi dal Concilio Vaticano II, ha prodotto statistiche impressionanti, di cui le gerarchie ecclesiastiche sono a conoscenza, ma da Roma non proviene alcun segnale d’allarme. Sono statistiche di cui la Chiesa prende atto gelidamente e asetticamente e nessuna autocritica emerge né dal Sommo Pontefice, né dalla maggior parte dei cardinali e dei vescovi: nessun mea culpa, anzi, orgogliosamente si va incontro a quell’autodistruzione sempre più massiccia di cui già Paolo VI parlava e paventava, senza peraltro prendere contromisure.
I dati che giungono dalla Francia sono impietosi: nel 2018, 58 diocesi in Francia non avranno nessun nuovo sacerdote. In tutto il Paese le ordinazioni saranno 114, meno dello scorso anno (133): la fonte, La Croix, riporta che 82 sono preti diocesani. In Italia sono invece 2.753 i seminaristi della Chiesa italiana censiti al 31 dicembre 2014 (fonte: SIR). Nell’arco degli ultimi dieci anni rilevati, dal 2004 al 2014, la flessione a livello nazionale è stata pari a circa il 12 per cento e la tendenza continua a scendere. Ormai vengono accorpate le parrocchie sotto un unico parroco non solo nei paesi di campagna e di montagna, ma anche nelle città di provincia e nelle grandi città. I sacerdoti sono chiamati a trascorrere molto tempo in auto per riuscire a celebrare nelle diverse chiese e le nuove leve sono sempre meno. Il forte calo di vocazioni che si nota all’interno delle realtà ecclesiastiche che celebrano il Novus Ordo non è presente, invece, nelle comunità religiose dove si celebra il Vetus Ordo.
Se mancano i sacerdoti le chiese devono chiudere. Ed è quello che sta accadendo ovunque. Nella sola Italia ce ne sono circa 100 mila e tremila sono quelle danneggiate dagli ultimi terremoti. Non esiste ancora e non sappiamo se verrà formulato un censimento che rilevi l’enorme quantità di edifici sacri cattolici in Europa dismessi. I Paesi più soggetti all’abbandono delle chiese sono Francia, Belgio, Olanda, Svizzera, Stati Uniti, Canada, ma ora anche l’Italia si sta ponendo sulla stessa scia.
La chiusura alla funzione del luogo di culto cattolico implica tre strade: o l’abbandono totale o la musealizzazione oppure la riconversione ad altra profana funzione. Per quanto riguarda la prima scelta ne abbiamo ampia dimostrazione in tutte quelle chiesette e cappelle che tappezzano migliaia e migliaia di paesi, paeselli e borghi europei: piccoli edifici che, magari, distano una manciata di metri l’uno dall’altro. Sì, perché la fede di un tempo richiamava l’esigenza, delle autorità (religiosa e civile) e dei fedeli, di edificare delle piccole, talvolta piccolissime case di Dio. Addirittura queste sacre casette le troviamo incastonate fra le casette delle famiglie di un tempo. Siano di pietra o di mattoni, esse erano presenza costante, diurna e notturna, del Signore. Un tale capillare, indomito e armonico piano architettonico non esiste in nessun’altra religione al mondo!
Quando in auto ci capita di passare per strade e stradine di pianura e di colli e di monti, possiamo accorgerci di luoghi sacri ripudiati, trascurati quand’anche diroccati, invasi da alte erbacce. E con l’immaginazione andiamo indietro nel tempo, pensando come doveva essere la fede di decenni e secoli fa, che, mentre innalzava magnificenti cattedrali, allo stesso tempo costruiva minuscole chiese, le quali, nella loro umiltà, erano belle alla vista e al cuore perché là poste per la maggior gloria di Dio e per il bene delle anime. E se per tale scopo erano state edificate, allora era evidente che fossero disegnate e plasmate in maniera soave e celestiale, divenendo così poesia spirituale di quei luoghi balsamici all’anima.
Veniamo ora alla seconda strada: la musealizzazione dei luoghi sacri. Poiché nelle città d’Europa esistono chiese sublimi nella loro bellezza architettonica ed artistica, esse richiamano l’attenzione di migliaia e migliaia, quand’anche di milioni e milioni di turisti, perciò, quando si entra in queste maestose dimore di Dio in terra si è tenuti… a pagare il biglietto. Ecco, quindi, che un tale approccio è blasfemo. Quando il fedele si pone il proposito di varcare la soglia di questi luoghi per pregare, come facevano i nostri antenati, in realtà si trova davanti ad un bivio: o rinunciare, perché impossibilitato al silenzio e al raccoglimento a causa della molteplice presenza dei turisti, oppure avanzare all’interno per curiosità, sapendo che quel luogo è stato trasformato in un vero e proprio museo, con tutto il mercimonio che ne consegue. Sotto questo punto di vista, è bene ricordarlo, scontento, proteste e critiche serpeggiano qua e là.
E veniamo alla terza strada: riconversione delle chiese, chiese che sono ancora appartenenti alle diocesi oppure hanno mutato, nel corso del tempo, i proprietari ed oggi appartengono al demanio, ai comuni, alle regioni, agli ordini e alle congregazioni religiose, alle confraternite oppure ai privati. Ed ecco che troviamo ex chiese trasformate in discoteche, night club, garage, ristoranti, gelaterie, moschee, negozi, bar, palestre, centri benessere… è sufficiente andare su Internet, dove non manca la documentazione fotografica, e tutti potranno osservare che cosa sta accadendo da qualche anno a questa parte. Tali barbarie avvengono sotto gli occhi sconcertati di molti cittadini, i quali, seppure vivano in contesti secolarizzati, con il senso di appartenenza al loro territorio, inorridiscono a tali camuffamenti. Per il fedele poi, la profanazione dell’originario progetto di quel dato edificio, sono vere e proprie sciabolate al cuore.
I giacobini trasformavano le chiese in stalle; i sovietici le riducevano a depositi ed arsenali; la mai paga laicizzazione le rendono luoghi di commercio mondano…
C’è un rimedio a tutto questo scempio?
Il più efficace sarebbe quello di una seria ed umile conversione dei Pastori. Dalla conversione si passerebbe alla fioritura delle vocazioni. Dalla fioritura delle vocazioni arriverebbe la domanda di luoghi di culto e da qui il ripristino della sacralità delle chiese di un tempo, ben degne di esserlo, non come quelle edificate negli ultimi 50 anni sul modello del prototipo progettato e realizzato dall’architetto brutalista Le Corbusier (Notre-Dame du Haut a Ronchamp, presso Belfot in Francia, su commissione di padre Marie-Alain Coutier O.P.), l’antesignano delle contemporanee archistar come Mario Botta, Renzo Piano, Massimiliano Fuksas…
Intanto il Pontificio Consiglio per la cultura, la Pontificia Università Gregoriana e la Cei hanno promosso un convegno internazionale in programma il prossimo novembre che si terrà nell’Ateneo dei Gesuiti, dal titolo «Dio non abita più qui?», momento nel quale saranno presentate delle linee guida sulla dismissione e il riuso del patrimonio ecclesiastico, il cui testo sarà discusso e approvato nelle prossime settimane dai delegati delle Conferenze episcopali d’Europa, America settentrionale e Oceania, rappresentate al convegno.
L’iniziativa è stata presentata nei giorni scorsi nella sede del Pontificio Consiglio per la cultura, dove si è affermato che, scopo del suddetto testo non sarà «se o quando dismettere o vendere una chiesa – la scelta ultima è dei vescovi e talvolta è una scelta obbligata – quanto dimostrare la necessità di una programmazione a lungo termine coinvolgente le comunità e la ricerca di un’intesa con le autorità civili». In pratica la Santa Sede si appresta a ragionare sul drammatico problema. Ha spiegato, per esempio, don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e del servizio nazionale per l‘edilizia di culto della Cei: «In molti casi la chiesa, anche quando poco frequentata, rappresenta un legame forte con la memoria dei luoghi, con la storia di quella comunità, e quelle trasformazioni commerciali in cui si perde completamente la memoria di tutto questo, spesso suscitano la protesta delle comunità locali». La volontà di recuperare le chiese crollate durante i sismi è molto forte nello Stato perché rappresentano un punto fisso per ricostruire intorno una comunità e un presidio per non perdere la propria identità.
Il Fec, il Fondo Edifici di culto presso il Ministero degli Interni, è proprietario di circa 820 chiese, espropriate dallo Stato Italiano durante il Risorgimento liberale e massonico, alla fine dell’Ottocento[1]. Ha scritto Francesco Peloso su «La Stampa»: «La gestione delle chiese dismesse – in particolare se di valore artistico – è regolata anche dagli accordi concordatari, tuttavia a volte a favorire la cessione dell’edificio è il suo valore commerciale, per la zona della città in cui si trova, per i risparmi di gestione che ne derivano per parrocchie in non floride condizioni economiche o per istituti di sostentamento per il clero che si fanno carico di edifici che – in questo caso – non producono reddito»
Quando il Vescovo di una diocesi decide di vendere ad un privato una chiesa diventa assai difficile impedire successive trasformazioni dell’ex edifico di culto in un ristorante o in una discoteca. Meno complesso quando si parla di comodato d’uso, realizzato d’intesa, per esempio, con un’istituzione pubblica. I quadri normativi mutano poi da nazione a nazione: in Canada sono tutelate anche le cappelle più semplici e isolate; in Francia le chiese sono soltanto di proprietà dello Stato; in Olanda e in Belgio vengono vendute moltissime chiese, poi riconvertire in maniera sconsiderata e dissacrante.
Il convegno sarà sotto l’autoritaria egida del Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Dicastero per la cultura, del quale ben si conosce l’orientamento non soprannaturale della fede e della Chiesa, nonché il suo compiacimento per l’arte dissacrante contemporanea, e da Monsignor Nunzio Galantino, da poco nominato alla guida dell’Apsa (Amministrazione patrimonio sede apostolica). Il destino delle nostre chiese, vuote di sacerdoti, vendute dalle autorità ecclesiastiche oppure abbandonate a se stesse per mancanza di interesse e/o di fondi, sono nelle loro mani… Siamo in attesa orante che la Divina Provvidenza intervenga alla riviviscenza della Chiesa e, quindi, che il vero Proprietario delle chiese torni ad essere il degno e autentico Padrone di casa.
[1] Fra queste ricordiamo: a Firenze, la Basilica di Santa Croce, Santa Maria Novella, San Marco; a Roma, Santa Maria in Ara Coeli, Santa Maria del Popolo, Santa Maria della Vittoria, Sant’Ignazio, Santa Maria Nova o Santa Francesca Romana, Santa Maria Sopra Minerva, Sant’Andrea della Valle, la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo al Celio.
Tortona (AL), la chiesa sconsacrata è diventata il ristorante Ghisolfi
Milano, il Gattopardo, chiesa sconsacrata dedicata a San Giuseppe: la cabina del dj sull’altare, il massiccio matroneo ricostruito per dare uno sbocco verso l’alto al flusso del pubblico
Verona, ristorante Santa Felicita
2 commenti su “Dove vanno a finire le chiese”
e che ce ne dovremmo fare di preti per una chiesa che ha tagliato via da sé la linfa della fede, e di chiese, grandi o piccole, che vengano gestite da preti che hanno rinnegato la ragione stessa per la quale quelle sono state edificate?
Meglio così: meno bestemmie e meno profanazioni: caduta la finalità della loro erezione, giusto che siano destinate ad altro uso, che costruzioni di pietra semplicemente rimangono. Corpi senza anima.
Dio disse a Santa Caterina da Siena che non voleva che ai suoi sacerdoti fosse tolto il rispetto per le loro malefatte, perché essi amministravano i Sacramenti. Ma non possono essere ministri del Signore uomini che praticano l’eresia, la profanazione e procurano il male alle anime, conducendole alla perdizione. Perciò è ormai doveroso accusare pubblicamente costoro per la loro empietà.