Esiste una cultura di «di destra»? E, se sì, in che cosa consiste?
Prima di rispondere a questa domanda occorre porsi altri due quesiti: esiste una «destra»? E, qualora esista, che cos’è?
Per dare una risposta positiva al primo interrogativo, è necessario ammettere che, in campo politico e, prima ancora in quello culturale, esista un insieme di valori alternativi a quelli «di sinistra» e con origine propria, vale a dire non semplicemente riconducibili al rifiuto del «progressismo» declinato nelle sue varie forme.
In che cosa consiste il pensiero «di sinistra», in estrema sintesi? Che cosa rende un pensiero o un autore «di sinistra»? Ciò che conferisce ad un pensiero la qualifica di essere «di sinistra» è l’adorazione del concetto di Progresso, unito ad «un’organizzazione autoritaria della società secondo un supposto modello razionale, idea inclusa, chiaramente, in tutte le dottrine rivoluzionarie, ma sviluppata più sistematicamente, un po’ alla maniera di Platone, da Fourier nel suo “falansterio”, e persino in maniera più paradossale, poiché Fourier pretende così di realizzare la libertà assoluta per ogni uomo»[1].
A ciò si potrebbe obiettare che, indubitabilmente, è «di sinistra» tutto il pensiero «libertario» e quello «liberal», che si prefiggono l’obiettivo di accrescere la libertà dell’individuo, “difendendola” dall’oppressione dello Stato e delle “parti forti” della società. Per fare ciò, però, impongono quella che a buon diritto può essere definita la «dittatura del politicamente corretto», che altro non è che la negazione della legittimità di ogni visione o, anche solo, di ogni idea in contrasto con tale progressiva lettura della Storia e della Politica. Ne consegue che anch’essi rientrano nella schiera degli applicatori delle dottrine di François Marie Charles Fourier (Besançon, 7 aprile 1772 – Parigi, 10 ottobre 1837).
A negare che esista una «cultura di destra» sono due filoni culturali, che lo fanno da prospettive diverse e divergenti.
Da un lato, si colloca la cultura della sinistra militante, secondo la quale non può esistere una cultura «di destra», perché tutto ciò che non è «di sinistra», per il solo fatto di opporsi al Progresso (la succitata divinità, la cui adorazione accomuna tutte le frange “sinistre”), è barbarie retrograda, incapace di produrre altro che ostacoli alla cultura; al massimo si può dare un’«anti-cultura».
Dall’altro, si colloca la Tradizione cattolica, impersonata mirabilmente da Jean Madiran, pseudonimo di Jean Arfel (Libourne, 14 giugno 1920 – Suresnes, 31 luglio 2013), in La destra e la sinistra. Vi si sostiene che lo scontro destra-sinistra è una costruzione politica successiva al 1789, per mascherare la vera antitesi, vale a dire quella fra Tradizione (cattolica) e Rivoluzione (illuminista); la contrapposizione tra destra e sinistra serve alla sinistra per denominare destra ciò che via via vuole combattere ed eliminare; in questo gioco è destinata a vincere la sinistra; al di fuori della sinistra non esiste nulla se non il Cattolicesimo di Tradizione.
A questo duplice attacco si incarica di rispondere l’agile volume di Francesco Giubilei (Cesena, 1° gennaio 1992) Gli intellettuali di destra e l’organizzazione della cultura, Oligo Editore, Mantova 2023, pp 106, € 13,00. L’incipit dell’Introduzione è rivelatore:
«Numerosi sono gli stereotipi legati al mondo della destra; uno dei più diffusi è l’assenza di una propria cultura, al punto che alcuni pensatori ascrivibili a quest’area sostengono che non si possa parlare di una “cultura di destra” così come, in modo speculare, è errato definire una cultura di sinistra.
Senza dubbio, però, ci si può riferire a una cultura da destra, ovvero a come scrittori, giornalisti, autori, filosofi annoverabili a un’area di destra facciano cultura. Questo pamphlet nasce con l’intento di superare una serie di luoghi comuni che ruotano attorno ai concetti di “destra” e “cultura” offrendo una breve prospettiva storica, soffermandosi su una pars destruens connessa all’egemonia culturale e concludendo con una pars construens su come realizzare una politica culturale».
La risposta all’obiezione ideologica è pressoché in re ipsa: basta scorrere i nomi, il numero ed il valore degli intellettuali «da destra», come dice l’Autore, e, almeno a riguardo molti di loro, si può tranquillamente parlare anche di intellettuali «di destra». L’indisponibilità a riconoscere nell’avversario politico alcun valore culturale denota l’atteggiamento settario della sinistra e del Progressismo in genere: essendo essenzialmente rivoluzionari, la loro esistenza (finalizzata alla presa violenta del potere) e, a maggior ragione, la Rivoluzione si giustificano unicamente screditando moralmente l’avversario: più egli è malvagio, più si giustifica la violenza rivoluzionaria, attuata o, anche solo, teorizzata e, dunque, la sua stessa esistenza politica.
Più intellettualmente fine è l’obiezione di Madiran: se non si ripudiano tutti i “Sacri princìpi” dell’89, vale a dire tutta l’ideologia della Rivoluzione, a partire, quanto meno, dalla cosiddetta Riforma protestante, si è rivoluzionari e la differenza, sia contenutistica che “di posizionamento” rispetto alla «sinistra» dipende dai momenti storici e, in definitiva, dalla decisione della sinistra di stigmatizzare quell’idea, quel pensatore, quel filone culturale come «nemico del progresso» o meno. Parafrasando il pensiero di Madiran, si potrebbe dire che la sinistra è la punta avanzata della Rivoluzione, mentre la destra è composita: comprende i seguaci della Tradizione e quelli della rivoluzione che non hanno seguito gli estremismi della sinistra, ma che accettano almeno alcuni dei “Sacri princìpi” dell’89. L’approccio del pensatore transalpino è filosofico e confronta le articolazioni del pensiero. Su questo piano il suo ragionamento è inattaccabile: alcune idee di sinistra sono passate a destra; si pensi, ad esempio, al Liberalismo; si tratta di un pensiero generato dalla sinistra (si tratta, di fatto del punto di partenza della rivoluzione) e rivalutato e ben considerato anche dalla destra, per tornare ad essere caro alla sinistra “di governo”, in una condivisione, nella quale ce ne si contende l’indubbia paternità (rivoluzionaria).
La risposta di Giubilei non è diretta; ma, anche se si pone su un piano diverso, non sfugge l’argomento: risponde ad una domanda filosofica con un argomento storico. E si ripropone l’antica diatriba, se la Storia sia disciplina ancillare della Filosofia o viceversa.
La semplice presentazione di molti dei pensatori e dei movimenti che la sinistra ha deciso di combattere, considerandoli di destra, dimostra come la loro esistenza e la loro elaborazione culturale abbia contribuito a combattere ed a rallentare, quanto meno, la marcia “trionfale” (o così la presumevano i suoi sostenitori) della sinistra, anche se al loro interno si possono ritrovare tracce (a volte più che tracce) rivoluzionarie e, quindi, lato sensu di sinistra.
La cultura della destra o, meglio, le culture delle destre variano a seconda del periodo storico. Prendiamo due esempi eclatanti: il Liberalismo ed il Fascismo, intesi entrambi nella loro portata storica e non nei loro contenuti dottrinali, poiché sarebbe impossibile, per tutti e due ridurli ad unità.
Il Liberalismo è l’ideologia della Rivoluzione e sfocia nel Giacobinismo e nel Terrore, ma, al tempo stesso produce la più importante e duratura linea di pensiero “conservatore”: la corrente liberal-conservatrice. Questa linea nasce nel partito Whig (liberale) che deve la sua origine (1679-1681) al favor verso l’Exclusion Bill, la legge che escludeva i cattolici dalle cariche pubbliche in Inghilterra, a differenza del partito Tory, contrario. È all’interno dei liberali inglesi che, ad opera di Edmund Burke (Dublino, 12 gennaio 1729 – Beaconsfield, 9 luglio 1797), nascono i Vecchi Whig, quelli che diverranno i liberal-conservatori e che avranno una grande influenza sulla destra anglosassone e, soprattutto, statunitense nel XX secolo.
L’opera di riferimento di questo movimento è Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia (1790), dove lo stesso Burke condanna la Rivoluzione incipiente. Normalmente si fa risalire al pensatore e politico britannico la nascita del Conservatorismo, anche se, molto acutamente, Giubilei vede nel partito aristocratico dell’antica Roma e, in particolare, in Marco Tullio Cicerone (Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) un’articolazione di pensiero conservatrice (p.28); la tesi è tanto fondata che Burke veniva detto il Cicerone britannico.
Questa osservazione rafforza ulteriormente l’analisi che abbiamo tratto da Madiran, della convivenza nel Conservatorismo e, più in generale, nella destra di un’anima “moderatamente” rivoluzionaria (liberal-conservatori) e di una tradizionale, come appunto l’Arpinate. L’autore non le separa, perché, da un punto di vista storico e politico, esse concorrono, nella sua analisi a porre un freno alla sinistra.
Discorso quasi analogo si può fare per il Fascismo, che è nato come un movimento rivoluzionario, con aspirazioni nazionaliste e socialiste; vi si mescolavano le classiche idee della sinistra con un forte senso patriottico: è stato un movimento politico più complesso e profondo di quanto la sinistra abbia mai voluto far credere, tanto è vero che da posizioni, almeno socialmente, molto “avanzate” è divenuto sinonimo di destra e di estrema destra. È vero che al suo interno c’erano anche posizioni moderate, quando non conservatrici, alcune vicine alla Monarchia o, addirittura, monarchiche.
Se, da un punto di vista dottrinale, non c’è una cultura unitaria di destra, con miti e valori comuni, si deve dire che esistono più culture di destra, che hanno contribuito ad arricchire il panorama intellettuale italiano. Ed il fatto stesso che i loro esponenti non abbiano messo a fattor comune i loro studi ed il loro genio sta, forse, a testimoniare che un punto di contatto esiste: il valore eroico e sacrale dell’individuo. Si potrebbe obiettare che esiste una destra statalista, dove la persona singola è sacrificata sull’altare della Patria, incarnata dallo Stato; questo, però, non è completamente vero, almeno in Italia: la supremazia dello Stato, anche quando questo si autodefinisce «totalitario» (senza, per altro, riuscire mai ad esserlo), è sempre mitigata dall’etica eroica e la stessa macchina statale è più affidata alla dedizione dei singoli, in cui è coltivato il culto, che alla perfezione della struttura.
Le culture di destra hanno subito un ostracismo molto forte da parte di un antifascismo militante che ha accomunato, per decenni, nella condanna e nella damnatio memoriae ogni forma di pensiero di destra, anche lontanissimo dal Movimento fondato da Benito Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945).
Eppure, questi nomi, queste culture, per quanto si sia cercato di nasconderli, non sono mai scomparsi ed oggi ritornano alla luce; non con il giusto riconoscimento, ma nemmeno con le calunnie di una volta. Questo perché, lentamente, molto lentamente, l’uomo, o forse, in questo caso, è meglio dire l’italiano, sta tornando a desiderare fortemente a riacquistare la propria cultura, perché si sa: non c’è persona senza cultura.
L’italiano vuole riconquistare la propria libertà. Ma cosa bisogna fare per riavere la libertà?
La difesa della cultura è senza dubbio un buon inizio, ma cosa occorre per difenderla concretamente?
Il libro di Francesco Galilei ci ricorda che è grazie alle tradizioni e alla storia se la cultura trova la sua stabilità. La storia pretende di essere protetta, come è giusto che sia. Solo quando ritroveremo il tanto, per troppo tempo, perduto coraggio di difendere la verità, allora ritroveremo la nostra libertà.
«conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32)
[1] Louis Daménie, La Technocratie Carrefour de la subversion (La Tecnocrazia Punto di incontro della sovversione). Louis Daménie (1911-1972), pseudonimo di Michel Flichy, fondatore e animatore della rivista L’Ordre Français, ha pubblicato vari studi critici sulla Rivoluzione francese e sull’intreccio di meccanismi che legano tecnocrazia e mondialismo, esoterismo e società segrete.