Francesco Faà di Bruno, militare, scienziato, sacerdote, scrive di sé nell’eccezionale Epistolario pubblicato dal Centro Studi Piemontesi

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Conoscere l’Italia, la sua storia, la sua cultura, la sua arte, attraverso gli epistolari è fra le cose più belle della ricerca storica, ma può essere affascinante anche per gli amanti dei ritratti biografici di personalità che hanno inciso in maniera determinante nella costruzione di ideali e di valori, quelli che danno sapore all’esistenza e danno corpo ai giorni. E poi, leggere gli epistolari significa incrociare personalità note e meno note: incontri e scontri del protagonista con chi ha trovato sul proprio cammino.  Così, avere fra le mani l’opera epistolare di Francesco Faà di Bruno (1838-1888), in due volumi, a cura di Suor Carla Gallinaro[1], pubblicato dal Centro Studi Piemontesi, è come aprire una biblioteca poliedrica fatta di sapere scientifico, di intensa spiritualità, di progetti, di iniziative, di sentimenti, di quotidianità mai banale, mai annoiata, mai stanca, ma sempre in divenire, in una ricerca spasmodica verso le altezze della conoscenza umana e dell’Infinito, con un anelito e una tensione tutte speciali verso la santità.

Grazie al Centro Studi Piemontesi siamo di fronte a pagine intinte nell’inchiostro del vigore della vita e del fermo proposito di  migliorare se stessi e gli altri, attraverso piani che portarono realizzazioni benefiche in una società torinese ottocentesca attraversata dalla rivoluzione industriale, dall’emigrazione dalle campagne e carica di violenza sia nelle sue strade, sia nei palazzi del potere, dove si proponevano e si varano leggi per annientare la Chiesa, con l’aiuto anche dei media del tempo, come «La Gazzetta del Popolo» e la florida stampa satirica. Ma in quella Torino, contemporaneamente alla feroce lotta politica anticlericale che si consumava sotto gli occhi di tutti, si lavorava alacremente e instancabilmente – quasi una provvidenziale “gara” fra numerosi Santi – per controbilanciare l’attacco alle istituzioni religiose. In questo contesto operò anche e attivamente il beato Francesco Faà di Bruno, beatificato da Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988.

Il patrimonio scientifico e spirituale contenuto nell’Epistolario ci offre l’opportunità di scandagliare una vita vissuta a 360 gradi, intimamente e pubblicamente, lasciando dietro di sé tanto bene e tanta bellezza di anime e di opere. Scrive Rosanna Roccia in un suo testo introduttivo ai volumi: «”Scritte nel presente – oggi, ora, adesso… -, e proiettate nel futuro – fra poco, domani, fra qualche giorno…-“, le lettere sono preziosa e insostituibile testimonianza di tanti “ieri”: frammenti di vita vissuta e di luoghi abitati dal pensiero, la cui mise en page incasella l’istante nei labirinti della memoria, e dunque della Storia» (p. XI).

Gli Epistolari sono un bene assai prezioso perché sono veri, autentici, privi di manipolazioni e interpretazioni estranee: sono documenti sine glossa, ciò che domandava a gran voce, nel suo  Testamento, san Francesco d’Assisi per quanto riguarda la Regola dei suoi Frati minori.

Il percorso del Faà di Bruno è stato molteplice, avventuroso, avvincente, dinamico quanto basta per compiere progetti mirabili.  Nel difficile tempo in cui visse, in cui il positivismo faceva guerra alla religione, snobbandola e relegandola nell’ambito della superstizione, lui, cattolico dichiarato, matematico-fisico-ingegnere internazionale, ha dimostrato al mondo intero che la scienza si può unire felicemente alla fede. Suo il motto: «La scienza vera porta a Dio».

Il 27 marzo u.s. sono trascorsi 133 anni dal suo dies natalis. Nato ad Alessandria il 29 marzo 1825, morì a Torino il 27 marzo 1888, poche settimane dopo la scomparsa di san Giovanni Bosco (1815-1888), che aveva servito tante volte devotamente all’altare. Ufficiale dell’esercito regio sabaudo, matematico, scienziato, inventore e sacerdote, egli ha speso energie e forze  per arricchire, allo stesso tempo, lo scibile umano e per onorare Santa Madre Chiesa.

Dodicesimo e ultimo figlio di Lodovico Faà di Bruno, marchese di Bruno, dopo aver frequentato l’Accademia militare fu nominato ufficiale, distinguendosi negli studi geografici e nella cartografia. Nel 1848-1849 partecipò alla prima guerra di Indipendenza italiana, quando venne decorato e promosso Capitano di Stato Maggiore. Combatté a Peschiera ed effettuò rilievi topografici del territorio lombardo, realizzando la «Gran carta del Mincio», utilizzata durante la seconda guerra di Indipendenza (1859).

Nel 1857 iniziò ad insegnare all’Università di Torino Matematica e Astronomia, affiancando anche le docenze all’Accademia Militare e al Liceo. A causa del violento attacco dello Stato italiano anticlericale nei confronti della Chiesa, non fu mai, lui, uomo di pubblica fede, nominato professore ordinario. Pubblicò importanti studi sulle teorie dell’eliminazione e degli invarianti e sulle funzioni ellittiche; autore, quindi, internazionalmente affermato di trattati e memorie, nel 1859 diede alle stampe a Parigi la Théorie générale de l’élimination, in cui venne esposta la formula che prenderà il suo nome e la sua fama in campo matematico crebbe con il trattato sulla teoria delle forme binarie. Collaborò a riviste scientifiche, pubblicò testi scolastici adottati anche all’estero, raccolte di musica da egli stesso composte e di altri autori, manuali di devozione e liturgico-musicali, opuscoli ascetici, agiografici, morali. L’ampiezza della sua cultura si avverte pure dal suo interesse per le lingue; oltre l’italiano parlava correntemente il francese, l’inglese e il tedesco e iniziò lo studio del russo e del cinese.

Da laico fondò nel 1859 l’Opera di Santa Zita per le donne di servizio ed altre opere di assistenza sociale ed educativa. Annessi a tale Opera vi erano l’Emporio Cattolico, una tipografia, una lavanderia a vapore. Inoltre, promosse la costruzione di bagni pubblici, l’apertura di cucine economiche e costituì in Torino una prima Biblioteca Mutua Circolante come strumento di formazione e di informazione per alimentare, variare e moltiplicare la lettura e la diffusione di libri religiosi e scientifici con modica spesa. La biblioteca, quindi, comprendeva volumi di formazione spirituale, offrendo anche testi scientifici, proprio per quella convinzione tutta sua che «la scienza vera porta a Dio».

La biblioteca, estesa a tutta Italia, venne molto apprezzata da papa Leone XIII  (1810 –  1903), che  la benedisse nel 1879. Si interessò anche di ingegneria, inventando diverse strumentazioni per la ricerca scientifica: nel 1856, per la cecità di sua sorella Maria Luigia, progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi, premiato con medaglia d’argento all’Esposizione nazionale dei prodotti dell’industria nel 1858. Vent’anni dopo, avvertendo la necessità di scandire il tempo della giornata, brevettò uno svegliarino elettrico e progettò un barometro a mercurio oltre a mettere in atto altre ideazioni scientifiche e tecniche. Ardito fu il suo capolavoro ingegneristico-architettonico: progettò e realizzò il campanile stretto e altissimo (oltre 80 metri) della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, da lui voluta in borgo San Donato, a Torino, considerato un vero e proprio miracolo di fisica statica. Scomparso alla terra a 63 anni di età, le sue spoglie, dal 1925, riposano proprio nella chiesa da lui fondata ed eretta.

Faà di Bruno si è posto al servizio della patria, della scienza, delle persone bisognose e della Chiesa. Ma più di tutto di Gesù Cristo. La sua reale conversione a Lui avvenne negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Egli era nato e cresciuto in una dimora cattolica, ma Francesco superò la già profonda fede domestica, cambiando totalmente la sua vita per porsi alla sequela di Nostro Signore e da lì ebbe inizio una strada cosparsa di meraviglie spirituali e materiali. Un grave fatto mutò drasticamente le sue aspirazioni e le sue prospettive all’interno della carriera militare e da lì comprese di poter contare solo sulle forze soprannaturali e non più su quelle esclusivamente umane, dandosi tutto alla Verità portata da Cristo in terra, a dispetto dei laicisti, dei secolarizzatori e degli anticlericali. L’accadimento che diede fuoco alle polveri prese le mosse nel 1853 quado si occupò della traduzione e pubblicazione di Hess sulla prima guerra di Indipendenza, progetto che venne bocciato con fermezza da Massimo d’Azeglio, a quel tempo primo ministro e ministro degli Esteri, il quale decise di spedire una missiva perentoria al conte Pralormo, ambasciatore del Regno Sabaudo a Parigi, affinché intimasse Francesco Faà di Bruno, che si trovava in Francia, ad annullare la pubblicazione, altrimenti sarebbe stato licenziato dall’esercito. Egli si sottomise a quell’ordine che riteneva estremamente ingiusto, perché calpestava le sue buone intenzioni di uomo di cultura oltre che di corretto e rigoroso militare, inoltre aveva pagato di propria tasca le ingenti spese di stampa. Da allora si avvicinò maggiormente al trascendente, «che sarà da ora in poi la sua unica e sola risorsa» (Una vita tra scienza e carità, contributo di Anna Rizzo, p. XXVII), fino al termine della sua vita per essere fedele soltanto più agli insegnamenti del Vangelo e ad un unico Padrone: Dio. Tutto ciò è presentato nella missiva che indirizza all’amata sorella, la contessa Luigia Faà di Bruno in Radicati. Scrive, infatti, da Parigi l’8 ottobre 1850, all’età di 25 anni:

«Carissima Sorella,

ti avevo scritto molto tempo fa nella speranza di ricevere da te qualche riga, qualche buon consiglio.

Ora provo più che mai il bisogno di attingere qualche consolazione, qualche saggio parere ad un’anima virtuosa e pia come la tua. A quest’ora la tua anima deve avere ricevuto una tempra ben dura, dopo essere stata gettata tante volte nel dolore dalla mano di Dio. Perciò non deve più piegare sotto le illusioni e le lusinghe del mondo. Io ne ho appena assaporato tutta la vanità. Danaro, fatiche, ecc. tutto è perduto per una cosa che l’appoggio di persone influenti mi faceva sperare. Espio la colpa di avere creduto di fare cosa buona. L’amore della patria mi ha indotto all’illusione. Ahimè? Forse è un avviso che Dio ha voluto darmi. Certo, se prima ancora mi rimaneva qualche poco di fiducia nel mondo, ora non ne ho più. Sono perfettamente ricondotto a Dio, che d’ora innanzi sarà la mia sola ed unica risorsa.

Sono contento di dirti queste cose per fortificarci maggiormente nell’amore di Dio e abbandonarci completamente nelle braccia della Provvidenza. Sarai stupita di sentirmi parlare così. Non è merito mio. È l’esempio delle grandi virtù che vedo praticare qui. […] nella parrocchia di San Sulpizio che conta 40.000 anime ci sono più di 100 comunioni al giorno. Niente rispetto umano; molte associazioni religiose, un’immensa carità. Spero che, grazie a Dio, mi troverai molto cambiato al mio ritorno […]» (pp. 155-156).

Carico di desideri e volontà per essere utile al prossimo, egli si esprime in questi termini al fratello, marchese Alessandro, al quale confida le sue ardue fatiche nel Corpo Reale dello Stato Maggiore e la sua sensazione di sentirsi inutile e di perdere tempo, perché, per lui sarebbe più importante istruirsi per essere in grado di migliorare la vita degli altri:

«[…] io m’adatto a questa vita, non certo per amore, ma per dovere. E questo dovere, o, meglio dire, la mia coscienza di zelo mi fa fare degli sforzi a cui altri non è forse sospinto dall’amore. Per essa subii due volte in questi 12 giorni, in cui perlustrai 6 altissime montagne, una dirottissima e furiosissima pioggia per ben lungo tempo, da parere da capo a piedi un torrente ambulante. Ne conservo ancor adesso la memoria per un po’ di tosse. E le marce poi di 6 ore per giorno in media, sempre per sentieri di capre, e i letti infesti ed orridi, ed il breve sonno e il cattivo mangiare? […] Io poi ho una malinconia che traspira a’ miei compagni dalla mia figura. Non mi sento al mio posto, vedo gli uomini ingiusti ed ingrati, mi tortura l’ignorare ancora il mio vero destino. Pieno di molti desideri mi duole in non poterne effettuare alcuno, sia per colpa mia propria, sia per colpa della fortuna. L’istruirmi e l’essere utile altrui sono i cardini della porta della mia felicità. Non sono infatti la sapienza e la bontà le due più belle prerogative di quell’Ente di cui noi siamo l’immagine? Io tutto darei per questo scopo, e beato quel momento in cui potrò raggiungerlo. […] Dovessi mangiare, come dicesi, della polenta, mi reputerei felice qualora potessi senza alcuna inquietudine l’istruirmi [nelle matematiche], il far onore al paese, e rendermi utile al prossimo» (pp. 206-207).

Tutta la tensione per liberarsi da ciò che non gli permetteva di raggiungere le sfere del sapere scientifico, a cui era portato, e gli ambiti dove avrebbe voluto manifestare il suo potente desiderio di carità, svanì, si dileguò per sempre, lasciando il posto ai suoi talenti di scienziato e di abile organizzatore e amministratore. Così, il giovane ufficiale riuscì a realizzare i suoi ambiziosi sogni, che andarono a collimare con la volontà divina.

Studio del beato Francesco Faà di Bruno, Museo Faà di Bruno, Torino

 

 

Strumentazioni usate e apparecchi (anche qui sotto)  ideati e progettati da Francesco Faà di Bruno, Museo Faà di Bruno, Torino

 

 

 

Scrive da Parigi l’8 maggio 1850 al fratello Alessandro, parlando dei piemontesi che viaggiavano per l’Europa, nominando anche l’alessandrino Signor Borsalino, che pare, a nostro avviso, far riferimento a quel Giuseppe Borsalino  (1834-1900) che fondò la celeberrima fabbrica dei cappelli in Alessandria e che proprio in quel tempo, nel 1850, era emigrato in Francia[2]:

«Carissimo fratello,

Non ti meravigliare se la tua lettera del 19 aprile ottiene risposta oggi soltanto, dal momento che oggi soltanto mi è stata consegnata dal sig. Borsalino. Vedi che mi affretto a risponderti ed a ricambiare la tua bontà. Il sig. Borsalino sta bene; sabato partirà per Londra. I piemontesi arrivano in massa. Sono molto spiacente di questi viaggiatori che hanno occhi soltanto per soddisfare la loro curiosità e denaro per conseguire unicamente i loro vani piaceri. Tempo e denaro sono perduti per il paese; essi servono soltanto a far venire ad altri la voglia di vedere. Quanto a me, io vorrei che tutti i visitatori fossero dei ladri, ossia che attingessero ai paesi che percorrono buoni metodi, migliorie, perfezionamenti, ecc. per introdurli poi nella loro patria. L’istruzione personale è uno scopo ben meschino, se non è reso grande dall’idea di essere utile alla società. […]». Quindi inizia a parlare della Francia e del Piemonte, con grande amarezza per l’incalzare della scristianizzazione, vedendo nell’istruzione religiosa l’unico mezzo per contrastare una linea politica rivoluzionaria e secolarizzante:  

«Mi chiedi un giudizio sull’avvenire della Francia. È molto difficile indovinare. La Provvidenza ride delle macchinazioni degli uomini. […] forse tra qualche tempo s’aprirà una nuova era su questo disgraziato paese, stanco di tante rivoluzioni e instabilità. La spedizione di Roma gli attirerà certamente le benedizioni del Cielo. Si osserva infatti che c’è maggior religiosità degli anni scorsi; il clero in seguito alla legge sul libero insegnamento, si dà da fare con una grande parte della società per aprire scuole; i Gesuiti stanno fondando collegi; il consiglio generale dell’agricoltura ha votato la soppressione del lavoro nei giorni di festa ecc.

Manca alla Francia l’istruzione religiosa: è questa la causa di tutti i mali. Non è possibile concepire quanto tale ignoranza sia profonda perfino nelle classi agiate.

Gran parte della gioventù è atea; l’altro giorno al tavolo di un oste, un giovanotto ha detto ad alta voce: che cos’è questo Dio dei cattolici; se per caso esistesse, lo pugnalerei; siamo noi Dei: io sono Dio, tu sei Dio, ecc.

Quando farò ritorno in Piemonte, non farò che predicare: Istruzione religiosa, istruzione religiosa, istruzione religiosa.

Temo assai che con tutti i suoi collegi nazionali si incomincerà là dove la Francia finirà. Dalle leggi Siccardi, credo che la mano di Dio si sia ritirata dal Piemonte. Già questo sventurato paese è diventato lo zimbello delle nazioni, l’Austria lo accusa di tradimento, la Francia di iattanza, l’Inghilterra di poazzia, il clero d’infedeltà, gli uomini politici d’incapacità… […] Tutto questo fa molto pensare circa il Piemonte. Una persona ragguardevole mi ha detto: avete messo in Sardegna i vostri rifugiati; un giorno o l’altro ve la toglieranno. Io ne dispero molto! Tutti questi deputati della Sardegna, della Savoia e della Liguria parlano con troppo orgoglio, e minacciano sempre. Basta non voglio continuare perché perderei la testa. Addio, mio caro, scrivimi altrettanto sulla situazione del Piemonte. […] e raccomanda al Parroco e a D.C. di fare molto leva sull’istruzione religiosa.

Senza questa tutto il resto non serve a niente» (p. 154).

Subentrata la chiamata vocazionale, a 51 anni, il 22 ottobre 1876, fu ordinato sacerdote a Roma, per intervento diretto del beato Pio IX  (1792-1878) e compì un intenso ministero sacerdotale. Istituì nel capoluogo subalpino una Casa per accogliere le ragazze madri, su richiesta del Pontefice stesso e un Collegio professionale con ritiri estivi a Benevello d’Alba. Diede avvio ufficiale alla Congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio il 16 luglio del 1881, cui lasciò in eredità di alimentare in perpetuo la preghiera per i defunti, per le anime del Purgatorio e l’impegno di continuare le opere socio-educativo-assistenziali, soprattutto a favore delle donne, da lui iniziate e che attualmente si svolgono ancora in Italia, Romania, Argentina, Colombia e Congo.

Nell’eccezionale Epistolario troviamo pure carteggi diretti al Faà di Bruno[3], firmati, fra gli altri, anche dai santi Giovanni Bosco, che gli fu amico e stretto collaboratore nella difesa della fede e della Chiesa, e Leonardo Murialdo (1828-1900). Le lettere, certe in lingue francese (con traduzione a fronte) altre in italiano, sono state scritte ai familiari – colme di affetto filiale e fraterno – ai docenti d’Università, ai nobili, ai politici, ai ministri, alle autorità militari, civili e religiose, alle sue suore, ai cardinali e finanche ai Pontefici. Le missive testimoniano un temperamento sensibile, spiritualmente profondo, dove la ragione eccelle sia per lungimiranza, sia per chiarezza di idee. Formule matematiche, disegni di congegni tecnici, progetti architettonici, conti amministrativi (dai più spiccioli a quelli molto più consistenti e impegnativi, senza sottrarsi dall’ “elemosinare” per ottenere aiuti e finanziamenti), tabelle, equazioni, radici quadrate… costellano epistole vergate, non si hanno dubbi, da una mente geniale, da un grande cuore, da uno stato di grazia e da una fede granitica, alimentata dalla preghiera e dai sacramenti. E poi, sta qui, quell’umiltà tipica di coloro che sono nobili d’animo e possiedono uno sguardo che va ben oltre le contingenze e trapassa e sublima i limiti di questo mondo, e così facendo sono capaci, ma per davvero, di renderlo migliore.

 

 

[1] Postulatrice del beato, nato ad Alessandria il 29 marzo 1825 e morto a Torino il 27 marzo 1888. Inoltre, la realizzazione della corposa opera è stata realizzata con la collaborazione delle Suore Minime del Santo Suffragio e del Centro Studi Francesco Faà di Bruno.

[2] Dopo sei anni all’estero, acquisita notevole abilità sartoriale e soprattutto il certificato di cui i cappellai avevano bisogno per aprire un atelier, fece ritorno in Italia. L’anno successivo, il 4 aprile 1857, avviò un laboratorio artigianale di cappelli in via Schiavina ad Alessandria.

[3] Di ciascun corrispondente sono fornite notizie sulla vita e sull’opera al fondo del secondo volume, oltre ad un valido apparato di indici.

 

 

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