La vicenda della nave Asso Ventotto

Home » La vicenda della nave Asso Ventotto

 

La nave Asso Ventotto, di proprietà della Augusta Offshore SpA e battente bandiera italiana, lunedì 30 luglio u.s., durante il suo lavoro di supporto ad una piattaforma petrolifera Eni al largo delle coste della Libia, dopo essere stata contattata dalla capitaneria di porto del Paese nordafricano, ha soccorso 108 naufraghi, che si trovavano su un gommone in avaria a circa 57 miglia marine da Tripoli; ha, poi, imbarcato un rappresentante della stessa guardia costiera africana e si è diretta verso il porto della capitale del Paese arabo, dove ha sbarcato le persone salvate su una unità della locale marina militare, che, a sua volta, le ha fatte sbarcare a terra. Questo episodio ha generato una serie di polemiche politiche nazionali ed internazionali.

Sul piano interno, il Partito Democratico e tutti i “cespugli” alla sua sinistra sono insorti, gridando alla violazione dei diritti umani, del diritto internazionale e della normativa interna sulle migrazioni; Forza Italia e la galassia centrista si sono chiuse in un «dignitoso silenzio»[1]; le forze di maggioranza (Lega e Movimento 5 Stelle) e Fratelli d’Italia hanno, invece, sostenuto come tutto si sia svolto nella perfetta legalità e, comunque, nell’ambito della sovranità libica.

Sul piano internazionale, l’Unione Europea si è riservata di prendere una posizione ufficiale quando i fatti le fossero più chiari (palese modo di mascherare l’imbarazzo, sul quale torneremo più avanti); alte grida hanno, invece, elevato al cielo l’NHCR (l’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati) e le varie ONG, soprattutto quelle che lavorano (lavoravano) nel Mediterraneo.

Ma perché questo episodio, di per sé contenuto, ha suscitato tanto clamore? Perché tutte le organizzazioni filo-immigrazioniste si sono sollevate, come morse da una tarantola, con reazioni tanto scomposte?

Il fatto in questione, pur nelle sue limitate dimensioni, mette in luce tutte le contraddizioni del vecchio terzomondismo sposato con il favor verso un’accoglienza pressoché indifferenziata nei confronti dell’immigrazione, a qualunque titolo essa si presenti ai nostri confini, terrestri o marittimi che siano. Ma procediamo con ordine.

L’accusa principale rivolta al Comandante dell’Asso Ventotto, alla nostra capitaneria di porto, al Ministro delle Infrastrutture, Danilo Doninelli, e, per estensione, a tutto il nostro Governo è quella di «respingimento collettivo di immigranti», vale a dire quella di avere espulso dal suolo patrio un gruppo indifferenziato di migranti, impedendo, così, anche a coloro di essi che avrebbero teoricamente il diritto di richiedere lo status di «rifugiato politico» di inoltrare la relativa domanda; e questo soprattutto in considerazione del fatto che il Paese verso il quale sono stati respinti non offre le necessarie garanzie e, conseguentemente, non viene classificato come «porto sicuro».

Il fondamento di tale accusa risiede nel fatto che un’imbarcazione battente bandiera italiana deve essere considerata territorio della Repubblica e che, quindi, il passaggio dall’Asso Ventotto al naviglio della capitaneria di porto di Tripoli si configura come una vera e propria espulsione dal nostro Paese verso la Libia, in violazione delle norme internazionali[2] e di quelle interne italiane[3]. Questa ricostruzione, però, pecca di formalismo.

L’imbarcazione italiana si trovava sì in acque internazionali, ma in una Zona economica esclusiva libica, all’interno di acque SAR[4] (Search And Rescue= ricerca e salvataggio) libiche e, non da ultimo, ha eseguito il salvataggio su ordine e sotto il coordinamento della capitaneria di porto libica, di cui, di fatto, è divenuta mero strumento operativo, senza possibilità di decisioni discrezionali e, ancor meno, arbitrarie.

Il diritto internazionale regola i rapporti tra un Paese e le sue acque antistanti. Fino a 12 miglia nautiche si estendono le cosiddette «Acque territoriali», all’interno delle quali lo Stato rivierasco esercita la medesima sovranità che sul suo suolo; al di là di queste, per altre 12 miglia nautiche, si estende la cosiddetta «Zona contigua», vale a dire quel tratto di mare sul quale la nazione rivierasca esercita un controllo militare atto ad impedire ogni anche solo potenziale crimine e/o azione ostile nei suoi confronti; ogni Stato può, infine, creare una «Zona economica esclusiva» sulle acque che lo bagnano, fino ad un massimo di 200 miglia nautiche, zona nella quale si riserva l’esclusiva dello sfruttamento economico del mare. Ogni Stato, inoltre, può creare una sua zona SAR, nella quale prende l’impegno di soccorrere e portare in un «porto sicuro» tutti gli eventuali naufraghi ed esercita il coordinamento di tali operazioni.

A causa della guerra civile che dilania il Paese, la Libia aveva perduto la sua zona SAR, che ha riacquistato recentemente, come confermato, per la prima volta, nel giugno scorso dall’Organizzazione marittima internazionale; a ciò si è giunti anche per le insistenze del Governo italiano, almeno da due anni a questa parte, con il duplice intento di rafforzare l’immagine internazionale del Governo di coalizione risiedente Tripoli e di coinvolgere sempre di più i libici nella lotta agli scafisti, con conseguente riduzione degli sbarchi sulle nostre coste.

Questa politica ha trovato l’appoggio della comunità internazionale, tesa a legittimare il Governo di Tripoli, e dell’Unione Europea, che si rendeva sempre più conto dell’impossibilità, per l’Italia, di continuare ad accogliere masse incontrollate di clandestini senza riversarne parte, anche grazie alla libera circolazione di Schengen, sui vicini, Francia ed Austria in primis. Nel frattempo, il vento politico in Europa stava cambiando e le forze politiche favorevoli ad un irrigidimento dei confini salivano al potere, non solo nei Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), ma persino in Austria e, in un secondo tempo, in Italia. Parigi si è ritrovata sola nella sua politica miope di rigida chiusura dei suoi confini con il nostro Paese, accompagnata, però, dal sostegno a tutte le istanze immigrazioniste ed alla destabilizzazione della Libia. Ecco che Bruxelles ha silenziosamente favorito il piano italiano per la nascita della zona SAR libica.

Il riconoscimento internazionale ed il rafforzamento politico del Governo di Tripoli comportano, inevitabilmente, il progressivo emergere della Libia dalle paludi dello «Stato fallito» al terreno, sia pure fangoso, dello Stato internazionalmente riconosciuto, anche se non completamente in grado di controllare il proprio territorio. E, come si sa, il miglior modo per legittimarsi è quello di assumersi impegni e portare a compimento. In quest’ottica, quindi, l’istituzione di una zona SAR e la sua gestione possono significare il passaggio da un riconoscimento formale ad uno effettivo per il Governo di Fayez al-Saraj.

La collaborazione del Governo italiano con l’esecutivo libico trova nel Ministro degli Interni la sua punta di lancia, proprio perché tutta la politica di Roma è tesa al contenimento del problema immigrazione. Inizia Marco Minniti, a capo del Viminale dal 12 dicembre 2016 al 1° giugno 2018, sostituendo la politica di collaborazione con l’ONG, caratterizzante la linea sull’immigrazione dei precedenti governi di sinistra, con quella di un’intesa sempre più stretta con Tripoli; questa rivoluzione copernicana porta all’urto con le Organizzazioni non governative, che vedono come il fumo negli occhi ogni tentativo di ridurre le partenze via mare, perché ciò ridurrebbe l’importanza del loro ruolo nel Mediterraneo, fino a farlo scomparire definitivamente. Questo scontro viene vinto dal Governo italiano, che impone alle stesse ONG un codice di comportamento vincolante, che ne limita molto l’autonomia.

Con la successione di Matteo Salvini a Minniti, questa politica si intensifica e sale di tono. A Tripoli vengono fornite ulteriori motovedette, con relativo equipaggiamento, oltre ad aumentare il personale istruttore. Ma il vero salto di qualità ha luogo nei confronti delle ONG, alle quali viene preclusa ogni autonomia nella gestione dei salvataggi, con conseguente chiusura dei porti italiani nei loro confronti, qualora contravvengano a tali stringenti direttive: di fatto, il nuovo Governo italiano vuole escludere tali Organizzazioni dalla gestione dell’immigrazione, incentrata sulla lotta agli scafisti, e dai salvataggi in mare, facendo via via crescere il loro ruolo libico. La guardia costiera italiana viene fatta arretrare fino a pattugliare unicamente la zona SAR di sua competenza, lasciando a quella libica il controllo delle aree di mare prospicienti alla costa del Paese africano.

Questa politica, che non stravolge, ma porta al suo completo compimento quella seguita in materia dal Governo Gentiloni, fa immediatamente emergere la contraddizione insita nella politica dell’Unione Europea: da un lato riconosce il governo di Tripoli, ne accetta la zona SAR di competenza e dichiara di volerne favorire la stabilizzazione, ma dall’altro non riconosce alle città rivierasche libiche la qualifica di «porto sicuro». La contraddizione è evidente: come si può chiedere alla Libia di esercitare e gestire le operazioni di salvataggio nella zona di sua competenza e, poi, tentare di impedirle di sbarcare i naufraghi salvati nei propri porti? Sarebbe come affidare al “buon cuore” dei Paesi rivieraschi più vicini (vale a dire l’Italia), chiamati da Tripoli a far sbarcare sul proprio territorio i naufraghi salvati dalle motovedette libiche, la possibilità per lo Stato africano di adempiere alle proprie obbligazioni internazionali. È evidente che questo significa non riconoscere la piena indipendenza dello Stato libico e sottoporlo ad una sorta di protettorato permanente.

La politica dell’Unione Europea, sposata in pieno da tutto il fronte progressista ed anzi sovranista del Continente, se in linea di principio condanna il colonialismo, nei fatti richiede l’applicazione di un neocolonialismo nei confronti dei Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, teso a fare dell’Italia il ricettacolo di ogni migrazione via mare.

Ecco che l’episodio dell’Asso Ventotto gioca il ruolo del bambino nella famosa favola del Re nudo: la Libia non potrà mai essere uno Stato sovrano fintanto che non potrà esercitare il pieno controllo sulle acque, a vario titolo, di sua competenza, con relativa esigenza del contrasto a quella che per Tripoli è l’emigrazione e per noi è l’immigrazione clandestina. E compito di ogni Stato sovrano è quello di impedire che masse di persone utilizzino il suo territorio al fine di invaderne, anche se pacificamente, quello di un altro Paese: questo sarebbe, per il diritto internazionale, un atto di grave ostilità, ai limiti del casus belli.

Il fatto che la capitaneria di porto libica abbia indotto una nave civile straniera, che collaborava con il proprio governo nello sfruttamento della Zona economica esclusiva di Tripoli, a collaborare con i doveri internazionali dello Stato libico è un atto di sovranità; è, forse, il primo vero atto di sovranità della Libia dopo la caduta di Gheddafi, non casualmente, ciò avviene sotto l’ombrello protettivo italiano.

Pare ancora di sentire i vari esponenti della sinistra italiana irridere il Segretario federale della Lega, dicendo che, per riportare i clandestini in Libia, sarebbe stata necessaria una guerra, perché il governo di Tripoli non vi avrebbe mai acconsentito spontaneamente. Oggi siamo nella situazione in cui è necessaria una guerra solo per impedire all’ex colonia italiana di compiere il suo dovere internazionale e di impedire progressivamente le partenze dei clandestini dal suo territorio, soprattutto con il deterrente che vede coloro che intraprendono questa rischiosa via destinati, in maniera sempre più ineluttabile, ad essere riportati sul territorio libico.

 

[1] È l’espressione che, tradizionalmente, i buddhisti più ortodossi usano per indicare l’atteggiamento di Siddhartha Gautama (566-486 a.C.), inventore della loro pratica spirituale, di fronte a domande sull’esistenza di Dio e sull’immortalità dell’anima.

[2] Articolo 33 della Convenzione sullo status dei rifugiati di Ginevra (1951) e Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (1963).

[3] Testo unico sull’immigrazione (1998).

[4] Il concetto di zona SAR risale alla convenzione di Amburgo (1979), elaborata all’interno dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo).

 

Facebook
WhatsApp
Twitter
LinkedIn
Stampa
Email

1 commento su “La vicenda della nave Asso Ventotto”

  1. queste foto qui sopra hanno sempre dell’assurdo, quindi dell’incredibile: questa qui ammassata è umanità??? Questo sarebbe il modo di gestire la propria esistenza secondo ragione e cognizione??? Mi vien da pensare alla storia (scema) dell’ evoluzione: a questo ci porta il processo evolutivo progressivo permnanente? Un’altra tappa verso il Punto Omega? Sempre più in alto verso l’unificazione nellla Grande Monade???

    (e basterebbe lasciarli due volte remigare senza ‘ soccorso’ per le acque questi barconi, per fare smettere l’oscena messinscena..)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Mettiti in contatto con noi!

Hai delle domande o delle osservazioni da comunicarci?
Ti risponderemo il più rapidamente possibile!

Europa Cristiana

Direttore Carlo Manetti

Iscriviti alla nostra newsletter

Se ci comunichi il tuo indirizzo e-mail, riceverai la newsletter periodica che ti aggiorna sulla nostre attività!

Ogni settimana riceverai i nostri aggiornamenti e non di più.

Torna in alto