La pace non è il bene assoluto

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«Quando il fratello disse all’altro fratello: “andiamo ai campi”». Il poeta Salvatore Quasimodo, nella sua lirica Uomo del mio tempo, non pone distinzione tra la violenza della guerra nel passato e la guerra nel presente e tristemente, vivendo la tragedia da uomo moderno, non vede alcuna soluzione al dramma della guerra stessa.

Gli storici hanno studiato la guerra sotto molteplici aspetti, sicuramente quello strettamente bellico ha prevalso, ma gli uomini lungo i secoli hanno tentato di capire quale sia la natura della guerra e se essa sia giusta, necessaria o assolutamente da evitare.

Anche San Tommaso D’Aquino volle studiare, riflettere e mettere ordine su questo argomento spinoso. Per comprendere la concezione tomistica della guerra è bene riflettere sulla natura dell’omicidio e sulle sue implicazioni sull’anima umana. Il teologo ci spiega nella Summa Theologiae che non è possibile separare l’agire umano dalla sfera spirituale della persona e quindi anche la guerra, che è compiuta da esseri umani, deve sottostare alla Verità e non può opporvisi.

Partendo dall’omicidio San Tommaso ci spiega come uccidere varia a seconda di cosa viene ucciso e il quinto comandamento non vale per tutte le forme di vita. Infatti dice: «Chi uccide il bue di un altro non pecca perché uccide un bue, ma perché danneggia un uomo nei suoi averi. Per cui questo fatto non è elencato tra i peccati di omicidio, ma tra quelli di furto o di rapina»[1].

L’omicidio, quindi, va inteso come peccato che lede direttamente la vita di un essere umano e in quanto tale va condannato; lo stesso santo però non pone questa linea come un assoluto, infatti esistono circostanze in cui l’omicidio è lecito o addirittura lodevole. Oggi, nonostante la confusione generale, la legittima difesa è da intendersi come scriminante di un omicidio e nel campo morale cattolico essa riconosce che non vi sia peccato per chi abbia ucciso essendosi difeso. Non solo, ma addirittura è lecito e quando doveroso il tirannicidio, l’eliminazione del tiranno pur essendo un omicidio a tutti gli effetti scagiona colui che lo compie perché tutela un valore superiore alla stessa vita del tiranno.

Occorre però ampliare il discorso perché nell’articolo 3 della questio 64 (seconda parte della seconda parte) San Tommaso ci dice che solo l’autorità pubblica può commettere omicidio per punire i malfattori che si sono macchiati di crimini pubblici o messo in pericolo la collettività. Sola eccezione: il tirannicidio sopracitato.

Il singolo uomo non ha l’autorità per porsi a difesa della collettività, questa è responsabilità del potere politico, al quale è lecito punire i nemici del bene comune con misura e con molta attenzione per non arrecare maggior danno piuttosto che beneficio attraverso la punizione.

San Tommaso specifica che i chierici non possono eseguire direttamente condanne: «Ai chierici non è permesso uccidere per due motivi. Primo, perché sono incaricati del servizio dell’altare, in cui viene rappresentata la passione di Cristo crocifisso, il quale, come dice S. Pietro (1 Pt 2, 23), “oltraggiato non rispondeva con oltraggi”. Per cui ripugna che i chierici percuotano o uccidano: i ministri infatti devono imitare il loro Signore, secondo le parole della Scrittura (Sir 10, 2): “Quale il governatore del popolo, tali i suoi ministri”».[2]

Il secondo riguarda il loro ruolo di sacerdoti o monaci e quindi di uomini dediti alla preghiera e ai sacramenti, non alle questioni politiche della collettività.

L’omicidio dell’innocente è invece da ritenersi sempre peccaminoso e reo di Inferno perché non vi è dubbio che non esista giustificazione, così come afferma San Tommaso stesso: «poiché essi costituiscono la parte più nobile della società. Perciò in nessun modo è lecito uccidere un innocente»[3].

La colpa dell’omicidio, come di tutti i peccati, deve essere volontaria, chi commette omicidio senza saperlo o involontariamente non ha colpa e questo vale sia in pace che in guerra.

Compresa a grandi linee la posizione di San Tommaso sull’omicidio, è bene soffermarsi ora sulla natura della guerra e soprattutto se per il monaco domenicano esista una guerra giusta.

Il discorso è affrontato proprio in un quesito apposito posto dal santo nella Summa Theologiae alla questio 40 della seconda parte della seconda parte.

Il primo articolo va a centrare il problema principale della guerra, compierla è peccato in ogni caso?

San Tommaso non si limita a dire se esiste una guerra giusta, ma riflettendo sul bene supremo, la salvezza di ciascuna anima, vuole rispondere al giusto dubbio se chi compie la guerra va direttamente all’Inferno.

Tenendo fermi i punti di analisi sull’omicidio, San Tommaso analizza il problema mettendo in contrasto l’idealismo pacifista già presente in età medievale e la piena condotta morale cattolica.

 

Il cappellano militare Don Carlo Gnocchi, tenente, Campagna dei Balcani, Fronte Orientale, Seconda Guerra mondiale

 

Citando la Sacra Scrittura si legge: «Io invece vi dico di non opporvi al malvagio»; e anche (Rm 12, 19): «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina». Queste citazioni erano già usate dai medievali coevi di San Tommaso per condannare qualsiasi tipo di guerra, obbligando così il cristiano a subire passivamente le offese e anche la morte.

Sant’ Agostino viene invece preso da San Tommaso in risposta quando afferma in Epist. 138: «Se la religione cristiana condannasse totalmente le guerre, nel Vangelo, ai soldati che chiedevano un consiglio di salvezza, si sarebbe dato quello di abbandonare le armi e di fuggire la milizia. Invece fu loro detto (Lc 3, 14): “Non fate violenza a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe”».

Ma una risposta di questo tipo non è sufficiente a definire la liceità o meno della guerra stessa. San Tommaso analizza il problema sul piano umano e divino.

Sul piano umano, spesso non considerato dai coevi del santo, la guerra deve essere proclamata e guidata dal potere politico che ha il compito di promuovere la guerra e guidarla sotto la sua responsabilità. Ciò viene dimostrato da San Tommaso quando dice: «Infatti una persona privata non ha il potere di fare la guerra: poiché essa può difendere il proprio diritto ricorrendo al giudizio del suo superiore. E anche perché non appartiene a una persona privata il raccogliere la moltitudine, cosa indispensabile nelle guerre. Siccome invece la cura della cosa pubblica è riservata ai principi, spetta ad essi difendere il bene pubblico della città, del regno o della provincia a cui presiedono. E come lo difendono lecitamente con la spada contro i perturbaturi interni quando puniscono i malfattori, secondo le parole dell‘Apostolo (Rm 13, 4): “Non invano l’autorità porta la spada: è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male”, così spetta ad essi difendere lo stato dai nemici esterni con la spada della guerra. Per cui ai principi viene anche detto nei Salmi (81, 4): «Salvate il debole e l’indigente, liberatelo dalle mani dell’empio». Per cui Sant’Agostino scrive: «L’ordine naturale, adattato alla pace dei mortali, esige che risieda presso i principi l’autorità e la deliberazione di ricorrere alla guerra»[4].

San Tommaso qui estende la posizione precedentemente espressa sull’omicidio dando ordine su chi può comandare la guerra e chi ha il compito di dichiararla.

Sul piano divino, invece, per non commettere peccato, la guerra deve avere una giusta causa, «cioè una colpa da parte di coloro contro cui si fa la guerra», inteso come azione ostile da cui ci si deve difendere. La guerra può avvenire solo in risposta ad un torto subito pubblicamente e di danno per la collettività. Un torto personale non può essere causa di una guerra, ma come dice Sant’Agostino, ripreso da San Tommaso: «Si sogliono definire giuste le guerre che vendicano delle ingiustizie: cioè nel caso in cui si tratti di debellare un popolo o una città che hanno trascurato di punire i delitti dei loro sudditi, o di restituire ciò che era stato tolto ingiustamente».

Non basta però che la causa sia giusta e guidata da un potere legittimo, il passo più difficile per gli uomini è rimanere buoni cristiani anche in guerra. San Tommaso vuole spiegare ai cristiani che anche in una guerra con giusta causa il comportamento del fedele non può divenire vendicativo, violento o menzognero.

«Può infatti capitare che, pur essendo giusta la causa e legittima l’autorità di chi dichiara la guerra, tuttavia la guerra sia resa illecita da una cattiva intenzione». Questa colpa è gravissima perché minaccia non solo l’anima di chi compie saccheggio, violenza gratuita o vendetta, ma anche la stessa liceità della guerra.

San Tommaso nella sua capacità di insegnamento ribadisce, sempre nella questio 40: «Chi invece usa la spada con l’autorità del principe o del giudice, se è una persona privata, oppure per zelo della giustizia e quindi con l’autorità di Dio, se è una persona pubblica, non prende da se stesso la spada, ma ne usa per incarico di altri. Quindi non merita una pena. – Tuttavia anche quelli che usano la spada in modo peccaminoso non sempre sono uccisi di spada. Essi però periscono sempre per la loro spada: perché se non si pentono sono puniti del peccato di spada per tutta l‘eternità».

In ultima analisi, sulla guerra lecita San Tommaso richiama il proverbio latino «Si vis pacem, para bellum», dando però non un valore di potenza militare che mantiene la pace, come inteso dai romani, ma quale obiettivo di chi fa la guerra: «Non si cerca la pace per fare la guerra, ma si fa la guerra per avere la pace. Sii dunque pacifico nel guerreggiare, per indurre con la vittoria al bene della pace coloro che devi combattere».

Parole di questo tipo sono assolutamente in antitesi con il concetto moderno delle guerre, che prevede l’annientamento del nemico e se desiderato, come avvenuto nel secolo scorso, il completo sterminio dello stesso.

La guerra per San Tommaso non è un movimento di tutto il popolo contro un altro popolo volto, come direbbe il teorico militare prussiano Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz (1780-1831), «all’ abbattimento dell’avversario», ma è la risoluzione di una controversia tra diverse collettività, risolta la quale devono cessare le ostilità e negati i soprusi del vincitore sul vinto e la vendetta del vinto sul vincitore.

Per capire meglio questo concetto è necessario osservare la realtà medievale in cui la guerra era presente abbondantemente ma molto spesso limitata. Limitata nei morti e nella durata, salvo eccezioni quali le crociate. Impressiona a questo riguardo la vicenda di Corrado del Monferrato (1140 ca.-1192), il quale nel 1187 aveva risposto alla chiamata della Crociata di papa Clemente III ma arrivato a Tiro dovette dire di essere un mercante genovese di passaggio, nonostante fosse su una galea cristiana, dato che gli uomini del Saladino avevano da pochi mesi conquistato la città. In questo modo ebbe salva la vita e gli fu così possibile combattere gloriosamente contro gli stessi uomini che avevano accettato la sua presenza come mercante.

Questo episodio ci mostra come in una realtà violenta di guerra di religione non esisteva la carica di odio che si manifesterà nell’età moderna per il nemico, inteso come popolo o addirittura per appartenenza religiosa, la guerra nel medioevo del Sacro Romano Impero aveva come massimo ideale il duello e lo scontro d’onore tra contendenti, anche se mediante l’uso di grandi eserciti.

La guerra medievale, che lo stesso San Tommaso vide, spesso era lo scontro tra due o più signori feudali che per risolvere le proprie dispute, tra di loro o con il sovrano, ricorrevano alla guerra, magari anche con una sola battaglia risolutiva.

San Tommaso prosegue la sua analisi nell’articolo 2 della questio 40, soffermandosi sulla liceità o meno per i chierici di partecipare attivamente alla guerra combattendo.

San Tommaso dà una risposta legata al dovere di stato, ossia il dovere che ogni buon cristiano deve svolgere nella situazione in cui si trova, ad esempio un padre di famiglia deve essere al meglio un padre di famiglia e non un chierico, oppure un fabbro deve fare bene il fabbro e non il contadino, quindi il cattolico è tenuto ad agire a seconda di quale sia il suo ruolo.

Lo stesso ragionamento va applicato ai chierici che svolgono il loro compito di sacerdoti e vescovi. Dichiara infatti il monaco domenicano: «Il bene dell’umana società richiede molte cose. Ora, mansioni diverse sono esercitate da persone diverse meglio e più agevolmente che da una sola, come spiega il Filosofo[5] (Polit. 1, 1). E alcune mansioni sono così incompatibili fra di loro che non è possibile esercitarle assieme come si conviene. Perciò a coloro che sono incaricati delle mansioni più alte vengono proibite le più umili: come secondo le leggi umane viene proibita la mercatura ai soldati che sono destinati agli esercizi guerreschi. Ora, gli esercizi guerreschi sono quanto mai incompatibili con gli uffici dei vescovi e dei chierici per due motivi. Primo, per un motivo generale: poiché essi implicano gravissimi turbamenti, e quindi distolgono troppo l’animo dalla contemplazione delle realtà divine, dalla lode di Dio e dalla preghiera per il popolo, tutte cose che appartengono all’ufficio dei chierici. Come quindi è proibita ai chierici la mercatura, poiché assorbe troppo l’animo, così è loro interdetto l’esercizio delle armi, in base all’ammonimento di S. Paolo (2 Tm 2, 4): “Nessuno che militi per Dio s’immischia nelle faccende del secolo”».

San Tommaso non preclude completamente la partecipazione dei sacerdoti al contesto bellico, ma limita il loro operato all’agire per la salvezza delle anime: «I prelati e i chierici possono partecipare alle guerre, col permesso dei superiori, non per combattere di propria mano, ma per assistere spiritualmente i combattenti con le esortazioni, le assoluzioni e altri soccorsi spirituali. Come anche nell’antica legge era prescritto (Gs 6, 4) che i sacerdoti nella battaglia suonassero le trombe. E per questo fu concesso originariamente ai vescovi e ai chierici di prendere parte alla guerra. Il fatto poi che alcuni combattano personalmente è un abuso».

San Tommaso analizza, nell’articolo 3 dedicato alla guerra, il problema della menzogna e degli inganni rivolti al nemico, ovvero, se sia lecito tendere insidie in guerra. La risposta del monaco è negativa quando l’inganno corrisponde alla volontà di mentire e tradire il prossimo, anche se nemico. «Per il fatto che gli viene detto il falso, oppure si manca alla promessa. E questo è sempre illecito. Quindi nessuno deve ingannare i nemici in questo modo: come dice infatti S. Ambrogio (De off. 1, 29), anche tra i nemici vanno rispettati i patti e certe norme di guerra»[6].

L’aquinate afferma che la stessa guerra deve avere delle norme comuni che non possono essere violate.

In verità San Tommaso non vuole codificare un diritto bellico, ma la sua preoccupazione è che la guerra giusta non porti l’anima del buon cristiano alla dannazione, infatti le promesse e gli accordi anche presi con il nemico non possono essere violati dal fedele, ma, qualora sia l’avversario a rompere i patti, allora solo in quel caso l’accordo decade.

Questo vale sia nel contesto bellico che nei periodi di pace.

La distinzione più complessa tra l’insidia e l’inganno, per il santo, si trova nel non detto, ossia il non riferire i propri piani o le proprie idee al nemico. La segretezza nel campo bellico è fondamentale per ottenere la vittoria: non rivelare le proprie intenzioni garantisce un forte vantaggio sull’avversario.
«Quindi fra tutte le altre norme dell’arte militare si mette al primo posto la precauzione di tener segrete le decisioni perché non arrivino al nemico, come si rileva dal libro di Frontino (Stratag. 1). E questa segretezza appartiene alle insidie di cui è lecito servirsi nelle guerre giuste. – Insidie che non possono propriamente essere dette inganni, e neppure sono in contrasto con la giustizia o con il retto volere: sarebbe infatti disordinato il volere di chi pretendesse che gli altri non gli nascondano nulla».[7]

L’ultima riflessione di San Tommaso riguarda la liceità di combattere guerre giuste nei giorni di festa.

La risposta al riguardo è netta: l’uomo ha il dovere di difendere non solo la sua integrità spirituale, ma anche quella materiale propria e collettiva, pertanto la guerra, se necessario, può essere combattuta anche sotto le feste.

Tuttavia occorre ricordare che nel medioevo esistevano le paci di Dio e le tregue di Dio. Nei conflitti tra popoli cristiani sovente le ostilità venivano interrotte nei giorni di festa, la domenica, ma non solo, ciò per permettere a tutti di vivere le sacre festività nonostante lo stato di guerra: questa era detta la «Tregua di Dio». Tali periodi potevano protrarsi per vari giorni, ad esempio in tempo pasquale. Talvolta si interrompeva addirittura definitivamente il conflitto, portando alla cosiddetta «Pace di Dio». Inizialmente sia le tregue che le paci di Dio riguardavano l’inviolabilità di chiese, abazie, sedi vescovili o luoghi della chiesa cattolica, su cui era proibito a tutti combattere o fare scorrerie; successivamente, su intervento del clero, dei vescovi o degli abati, la pace di Dio prese forza non solo sul luogo sacro, ma anche nel tempo sacro.

San Tommaso, preoccupandosi dell’anima del singolo combattente in guerra, specifica che, se è necessario, è lecito combattere anche in giorni di festa.

«L’osservanza delle feste non impedisce le cose che sono ordinate alla salvezza anche fisica dell’uomo. Per cui il Signore (Gv 7, 23) rimproverava i giudei dicendo: “Voi vi sdegnate contro di me perché ho guarito interamente un uomo di sabato?”. E così i medici possono curare gli uomini in giorno di festa. Ora, si deve promuovere con maggiore impegno la salvezza della patria, con la quale si impediscono uccisioni molteplici e innumerevoli danni temporali e spirituali, che la salute corporale di un uomo. Quindi per la salvezza della patria è lecito ai fedeli combattere le guerre giuste nei giorni di festa, se però la necessità lo richiede: trovandosi infatti in tale necessità, sarebbe un tentare Dio astenersi dal combattere”»[8].

 

La tregua di Natale del 1914

Il 7 dicembre di quell’anno, il neoeletto Papa Benedetto XV invocò una tregua di Dio, in cui i combattimenti sarebbero cessati durante il periodo natalizio.
L’offerta del Papa venne respinta dai comandanti militari, ma le armi tacquero comunque in alcune zone del fronte occidentale dove i soldati britannici e francesi stavano affrontando l’esercito tedesco.

 

Nella sua opera, il Dottore angelico affronta la questione bellica come un problema per l’anima dell’uomo nel suo rapporto con l’eternità e spiega come anche la guerra faccia parte della vita dell’essere umano che, volente o nolente, la attua o la subisce. Però, a differenza del pensiero moderno, rifiuta completamente il pacifismo ideologico o il bellicismo realista, ponendo la singola persona davanti alla tragedia della guerra e spiegandone la natura e la liceità della stessa. Non solo, distingue chi è autorizzato a fare la guerra, chi può commettere omicidio e chi no, se esistano proibizioni o azioni non consentite in guerra, ma addirittura esamina le condizioni a cui un cristiano si deve attenere nel comportamento, nelle parole e nel pianificare una guerra.

 

Soldati tedeschi e britannici insieme, Tregua di Natale del 1914

 

San Tommaso ci riporta alla realtà: se è necessario combattere bisogna combattere ed entrare in guerra.

Il mondo europeo ha riscoperto da ormai più di un anno che la guerra non può venir marginalizzata come fenomeno passeggero, come avvenuto per più di mezzo secolo nel vecchio continente, ma al contrario occorre ricordarsi come anche nella guerra l’eternità ha l’ultima parola.

Dove nella guerra l’uomo si sofferma sull’incrementare il proprio potere, San Tommaso si occupa dell’ eternità di ciascun essere umano.

 

Peter Knight and Stefan Langheinrich, discendenti di reduci della prima guerra mondiale, commemorano la Tregua di Natale del 1914  (Foto 2008)

 

 

[1] Summa Thelogiae, parte seconda della parte seconda questio 64, art 1.

[2] Summa Theologiae, parte seconda della parte seconda quetio 64, art. 4.

[3] Idem.

[4] Sant’Agostino, Contra Faustum 22, 75.

[5] Aristotele.

[6] Summa Theologiae, parte seconda della parte seconda questio 40, articolo 3.

[7] Idem.

[8] Summa Theologiae, parte seconda della parte seconda questio 40, articolo 4.

 

 

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