Ieri, sabato 23 febbraio, Il Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, inaugurando il 56° Salone dell’Agricoltura, il più importante appuntamento della ruralità transalpina, ha dichiarato: «Come voi sono un patriota dell’agricoltura. Credo nella forza dei nostri territori. Ma questa forza non sarebbe la stessa senza la nostra Europa. L’Europa agricola oggi è minacciata dall’esterno», alludendo a Russia, Cina e Stati Uniti. Tutto questo mentre la situazione degli agricoltori francesi si fa ogni giorno più insostenibile, anche e soprattutto per la vera e propria guerra che l’Unione europea ha scatenato contro di loro, con l’appoggio del Governo di Parigi.
Karl Marx (1818-1883) ha sempre considerato i contadini come la classe sociale “reazionaria” per eccellenza, più reazionaria, quindi, degli stessi industriali. Questa presa di posizione potrebbe, a prima vista, apparire sorprendente, soprattutto in bocca a chi legge la storia come “l’eterno” conflitto tra il lavoro ed il capitale. Ma per quale ragione gli agricoltori dovrebbero essere pregiudizialmente più ostili alla Rivoluzione degli stessi industriali?
Il motivo risiede nel fatto che l’ostilità degli industriali è di carattere economico, mentre quella dei contadini è di natura culturale. I proprietari delle fabbriche vi perderebbero la proprietà delle loro aziende, mentre i contadini vi perderebbero la loro identità, il loro stesso modo di essere e di vivere. I conflitti economici possono essere risolti con un accordo, perché il denaro è quantificabile in termini numerici e le parti possono ritenere più conveniente farsi reciproche concessioni, patendo, ciascuna dal proprio punto di vista, i «costi della pace», pur di evitare lo scontro, piuttosto che affrontare i «costi della guerra»; il tutto si riduce, in fondo, ad un, sia pur normalmente difficile, conteggio matematico. Quando, invece, lo scontro è identitario, il compromesso diviene pressoché impossibile, poiché la perdita della propria identità rappresenta una sorta di morte spirituale, rispetto alla quale lo scontro e la lotta risultano sempre preferibili.
Ma che cos’è che rende l’identità contadina così irrimediabilmente inconciliabile con la Rivoluzione?
Il contadino trae il proprio sostentamento dai frutti della terra e questo gli impedisce una separazione netta tra lavoro e tempo libero, tra professione e vita. Egli coltiva la terra e, con il suo lavoro, la induce a dargli ciò di cui ha bisogno, ma non può mai dominare la terra stessa, essendole, anzi, in qualche modo, sottomesso. Il lavoro dei campi è ontologicamente “a rischio”, poiché non è possibile prevedere con certezza il risultato qualitativo e quantitativo delle proprie azioni; anche dopo aver fatto tutto quanto è umanamente possibile, con la massima diligenza, non si può prevedere con sicurezza quale sarà l’esito: di qui la duplice necessità di porre, nella propria attività lavorativa, tutto lo zelo di cui si è capaci e, al tempo stesso, di affidarsi totalmente alla Provvidenza. Come si comprende, quella del contadino non è un’attività lavorativa in senso proprio, ma un modo di vivere o, per essere più precisi, una vita: una persona non fa il contadino, ma è contadino; tutta la sua vita e tutta la vita della sua famiglia è legata alla terra con un’identificazione quasi assoluta e totale, cosicché privare il contadino della terra equivale, di fatto, a privarlo della sua vita.
Questo orizzonte, che, a prima vista, appare angusto, dona al coltivatore una mentalità immediatamente realistica, verrebbe quasi da dire “istintivamente” realistica, poiché lo pone tutti i giorni di fronte all’assoluta necessità del proprio lavoro ed ai grandi risultati che esso può produrre, ma, al tempo stesso, anche di fronte alla sua insufficienza rispetto al compito affidatogli; egli si trova costantemente di fronte alla natura ed alle sue leggi, dalle quali dipende la sua stessa sopravvivenza. La conoscenza della natura ed il rispetto delle sue leggi diviene, quindi, l’unica possibilità per sopravvivere.
La Rivoluzione, invece, è sempre urbana e si basa sul presupposto, assolutamente contro natura, di poter rimodellare la società e, in prospettiva, l’universo secondo i propri desideri. Risulta evidente, quindi, l’impossibilità di trovare un punto di incontro fra questi due modi antitetici di concepire la vita.
Questa contrapposizione ha caratterizzato, in modo particolare, tutta la storia della Francia, almeno a partire dalla Rivoluzione del 1789; e questo è sempre stato esplicitamente evidente ad entrambe le parti, come mette bene in evidenza la stessa Marsigliese: «Entendez-vous dans les campagnes / Mugir ces féroces soldats?» [Udite nelle campagne / Muggire questi feroci soldati?] o, poco più oltre, «Marchons, marchons! (Marchez, marchez !) / Qu’un sang impur / Abreuve nos sillons!» [Marciamo, marciamo! (Marciate, marciate!) / Che un sangue impuro / Abbeveri i nostri solchi!]. La Rivoluzione vede nelle campagne solo rozzezza e la ferocia, che pretende che da tale rozzezza discenda, a giustificazione della violenza pianificata da utilizzare nei confronti di queste persone, che non comprende, la cui cultura disprezza ed a cui non riconosce alcun diritto. Il genocidio vandeano è già tutto racchiuso in questi versi.
Oggi la Rivoluzione non è più rappresentata dal blu delle divise giacobine, ma dagli eleganti vestiti dei finanzieri della Banca centrale europea (Bce) e dei loro lacché politici, di cui Emmanuel Macron rappresenta, anche a livello umano, il perfetto prototipo; le sue armi non sono più la ghigliottina e le baionette della soldataglia, ma la soffocante tassazione e le “progressiste” leggi ecologiche, che comportano insostenibili aumenti delle accise sui carburanti, le riforme del sistema bancario e la sua unificazione a livello europeo, che impediscono, di fatto, l’erogazione del credito alle piccole e medie imprese, il liberalismo neo-giacobino, che vuole trasformare i piccoli imprenditori in dipendenti…
Ma il risultato è il medesimo: la prosecuzione, con altri mezzi, della guerra contro i contadini e la loro cultura, oltre che contro la libera imprenditoria delle piccole medie imprese, nerbo dell’economia francese, come di quella italiana. E questo ha prodotto, nelle campagne francesi, una disperazione di proporzioni terrificanti, anche se rigorosamente taciuta dai maggiori mezzi di informazione. Questa crescente desolazione è montata a tal punto da produrre, tra gli agricoltori transalpini, un suicidio ogni due giorni; questi gesti estremi, dal 2016 ad oggi, si sono triplicati, nel silenzio generale, tanto da indurre persino l’insospettabile «Le Monde» a parlare di «ecatombe silenziosa».
Questo spiega perché le manifestazioni dei «Gilet gialli» continuino, anche con atti di violenza, e, nonostante la dura repressione delle forze dell’ordine, siano giunte alla sedicesima settimana consecutiva, non accennando a voler terminare.
Se al malcontento della «Francia profonda», come è conosciuto il mondo rurale e della provincia transalpina, si dovesse saldare quello, non ancora venuto alla luce, ma silenziosamente covante sotto la cenere, di sempre più vasti strati della popolazione francese rovinati dalle politiche della Sinarchia eurocratica, la situazione potrebbe assumere i caratteri di una tragedia ancora maggiore, non avendo questa disperazione ancora trovato sufficiente rappresentanza parlamentare e di Governo, come, invece, ha fatto in Italia.