Aborto: è tempo di un bilancio

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Intervista a Alfredo Mantovano, a cura di Mario Bozzi Sentieri

 

Approvate dal Senato il 18 maggio 1978 e pubblicate sulla  “Gazzetta Ufficiale” il 22 maggio dello stesso anno, le norme sulla cosiddetta Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) furono, a metà degli  Anni Settanta del ‘900,  il risultato di una martellante campagna di comunicazione/mobilitazione, patrocinata dal Partito Radicale e dal settimanale “L’Espresso”, diventato l’organo  di una cultura abortista dai tratti provocatori.

Sull’onda delle manifestazioni e delle proteste, lanciate nel nome della “liberazione della donna”, venne a coalizzarsi un ampio e trasversale fronte politico (dal Partito Liberale al Partito Comunista ai gruppi dell’extraparlamentarismo di sinistra) che trovò, in Parlamento, i numeri necessari per approvare la legge con la quale vennero  a cadere i reati, previsti dal  codice penale, riguardanti i reati d’aborto su donna consenziente, di istigazione all’aborto, di atti abortivi su donna ritenuta incinta, di sterilizzazione,  di incitamento a pratiche contro la procreazione.

Al di là delle norme,  quello dell’aborto non è un argomento facile, tanti e complessi sono gli elementi che lo compongono: dall’etica alla medicina, dall’antropologia alla demografia.

Ricordare i 40 anni della legge 194 che ha legalizzato l’aborto non può allora diventare un appuntamento di routine, celebrativo e scontato, quanto piuttosto l’occasione per una seria analisi dell’esperienza fatta, dei problemi ancora aperti, dei “costi sociali”, oltre che morali, della legge 194.

Ne abbiamo parlato con Alfredo Mantovano, magistrato  della Corte di appello di Roma, da sempre impegnato sui temi della Vita e della famiglia.

 

Facciamo un po’ di storia. Una delle “ragioni” portate a sostegno della legge sull’aborto da parte dei promotori fu che essa avrebbe combattuto la piaga degli aborti clandestini. Si denunciò contestualmente l’ipocrisia di chi non voleva ammettere alla luce del sole ciò che era praticato di nascosto sulla pelle delle donne. Le attese della vigilia sono state mantenute?

Quella campagna fu realizzata su dati falsi. A fronte di un’area di clandestinità che 40 anni or sono era stimata in 50./100.000 aborti all’anno, si lanciò il numero inverosimile di 3 milioni ogni 12 mesi; egualmente “montate” furono le cifre sulle presunte morti per interruzione di gravidanza. Nelle relazioni del Ministro della salute sull’applicazione della l. 194 si è sempre registrata una residua ma consistente clandestinità, e da sponde abortiste se ne è addebitata la responsabilità agli obiettori. In realtà, nonostante l’elevata percentuale di medici che rifiutano di eseguire interventi abortivi, questi ultimi sono garantiti nell’intero territorio nazionale. Anzi, dopo i plurimi interventi di c.d. “razionalizzazione” del sistema sanitario in tutte le Regioni italiane, sono stati soppressi in modo più consistente numerosi “punti nascita”.

Parliamo di numeri. Nei primi anni ’70 si iniziarono a diffondere dicerie secondo cui in Italia avvenivano da 2 a 4 milioni di aborti clandestini all’anno, con 20-25 mila donne che ne morivano ogni 365 giorni. Si trattava in realtà, si sarebbe scoperto poi, di numeri totalmente infondati. Dall’unico studio fatto in quegli anni emerse che non potevano essere più di 100 mila gli aborti clandestini, numero più proporzionato a ciò che poi realmente sarebbe emerso con la legalizzazione. Eppure il dato costituì una bandiera importante per i sostenitori di un percorso per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. Oggi quali sono i numeri degli aborti praticati dal 1978 ?

Nel 2016 – ultimo dato disponibile – il numero di aborti“legali” è stato pari a 84.926, con una diminuzione del 3.1% rispetto al dato del 2015, quando ne erano state registrate 87.639. Il dato più elevato si era raggiunto nel 1982: 234.801. Il decremento tuttavia non tiene conto della ampia diffusione delle pillole abortive: le ivg che spesso seguono alla loro assunzione andrebbero rubricati come clandestini, poiché sfuggono a ogni registrazione e controllo, anzitutto sanitario. Il paradosso è che, mentre nel 1978 si disse di voler assicurare alla gestante in difficoltà una protezione sociale e medica, oggi – grazie alla mentalità abortista diffusa a seguito della 194 – l’aborto è diventata una pratica individuale, solitaria, che con frequenza elude la rilevazione statistica.

Di fronte a questi numeri, viene spontaneo chiedere:  in quarant’anni quali  sono stati  i “costi sociali” delle politiche abortiste ?  Oggi si invocano  le politiche migratorie quali strumenti di compensazione del gap demografico e dell’invecchiamento della popolazione. La legalizzazione dell’aborto è centrale rispetto a questa crisi …

Il costo umano della 194 corrisponde a non meno di 6 milioni di esseri umani soppressi “legalmente” prima di nascere negli ultimi 40 anni. Se la mancata o ridottissima crescita economica rispetto ad altri Stati europei dipende dal pesante calo demografico e dal parallelo incremento – in termini assoluti e percentuali – della popolazione anziana, con le spese che ciò comporta, il contributo più pesante al depauperamento demografico dell’Italia è venuto proprio dalla legislazione abortista, affiancata dall’assenza di serie politiche pro life.

E cominciamo ad entrare nelle questioni “di valore” che sono evidentemente alla base degli indirizzi giuridici, a cominciare dal  valore sociale della maternità, che è stato completamente dimenticato …

Non si può indicare nella rubrica di una legge che essa promuove il valore sociale della maternità e poi disciplinare la soppressione, sostenuta dallo Stato, di chi permette a una donna di essere madre. La trasformazione “culturale” avviata dalla 194 ha permesso di giungere nel 2014, fra le altre, alla sentenza della Corte Costituzionale che, rendendo legittima la fecondazione artificiale eterologa, ha proclamato il diritto alla autodeterminazione in ordine all’avere o al non aver un figlio. Ma se un figlio diventa “oggetto di diritto”, nel senso che mi viene riconosciuto il “diritto” di rifiutarlo quando non lo desidero e il “diritto” di averlo a tutti i costi, anche con seme di altri, quando non arriva e lo desidero, il figlio diventa tout court un “oggetto”. Così torniamo indietro di due millenni, quando il pater familias era titolare dello jus vitae ac necis verso la prole: i venti secoli successivi di civiltà aveva permesso di abbandonare quella autonoma disponibilità della vita umana, che oggi riemerge, consacrata in leggi e in provvedimenti giudiziari.

Il grande assente nel dibattito sull’aborto resta anche questo: i rischi dell’aborto. Secondo dati dell’Oms le morti per aborto sono il 7,9% sul totale della mortalità materna, pari a circa 193mila decessi l’anno. Ma il dato è sottostimato, se si legge quanto diffuso dalla rivista scientifica Lancet, secondo cui i decessi causati dall’aborto sarebbero il 14,9% della mortalità materna.

Quando si abbandona una prospettiva di vita e si pone in conflitto con la permanenza in vita del concepito la salute della madre, intesa non nel senso di mancanza di patologie, ma di pieno benessere fisico psichico, alla fine diventa a rischio anche la vita della donna: talora – come ancora tragicamente accade – quella fisica, molto più di frequente il suo equilibrio e la sua voglia di vivere, che restano gravemente segnate. Quel che va contro la natura ha sempre un prezzo pesante.

E molto c’è poi da dire sulle ripercussioni fisiche e psicologiche dell’aborto sulla donna. “Su innocui medicinali acquistati in farmacia – ha rilevato Toni Brandi, presidente di ProVita – c’è un bugiardino che informa sulle possibili controindicazioni, sull’aborto c’è una cortina di silenzio”…

E’ vero. Eppure proprio negli articoli 4 e 5 della 194 si prescrive che la fase autorizzativa all’aborto debba essere preceduta da una fase della dissuasione, che passa dalla prospettazione di concrete alternative all’intervento di ivg. La spinta a far approvare quella legge come rimedio per un presunto problema sociale si è velocemente dissolta in favore della rivendicazione di totale autonomia, che – in quanto dato ideologico – non tollera che si parli delle controindicazioni, fisiche e psichiche, che ogni aborto ha. Ignorarle non migliore il quadro, anzi. Corrisponde alla condizione di chi percepisce di non stare bene e ne ignora la causa, e per questo si dispera.

Rimane centrale la questione di considerare la maternità  come d’interesse dell’intera società. In che termini può essere ripreso questo tema fondamentale ?

In termini non confessionali o da scontro ideologico, ma di sopravvivenza di una Nazione, che è destinata a morire in quanto tale con l’attuale trend demografico. E di tutela dell’identità dell’essere madre e dell’essere padre: che è assunzione di responsabilità, non soddisfacimento di un desiderio.

A quarant’anni dalla promulgazione delle Legge 194 sull’aborto il vero “diritto” appare quello di ripensarla questa legge sull’aborto contestandone i limiti, le sue debolezze strutturali, anche la sua ipocrisia di fondo, quando parla di  diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, insieme con “il riconoscimento del valore sociale della maternità” (art. 1). C’è spazio per una nuova iniziativa culturale e politica per la Vita ?

Dal 1978 più volte la Costituzione, che pure è il testo normativo fondamentale della nostra Repubblica, e conosce una procedura complessa di revisione, ha subito incisive modifiche. Dal 1978 ipotizzare la modifica anche di un solo comma della legge 194 fa gridare all’attentato. Reazioni analoghe provoca perfino l’avvio di una riflessione seria sulla sua attuazione, in relazione ai propositi enunciati al momento del suo varo e a quanto recita la sua rubrica: tutela sociale della maturità e protezione della vita umana dal suo inizio. Un bilancio obiettivo degli effetti della legge è invece il presupposto ineludibile per comprendere se merita di restare così come, o ha necessità di rettifiche, in virtù di quanto accaduto in questi quattro decenni, e sul perché la fase della prevenzione/dissuasione non ha trovato attuazione. Servono al tempo stesso coraggio ed equilibrio, oltre che adesione alla realtà.

 

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2 commenti su “Aborto: è tempo di un bilancio”

  1. La legalizzazione dell’aborto costituisce il simbolo atroce ed autentico dell’attuale civiltà occidentale. Durante il lungo periodo di decadenza dell’impero romano l’uso delle tubazioni in piombo causò una forte denatalità delle classi medio-alte. Ma a loro scusante c’è il fatto che non lo sapevano. La chiesa avrebbe dovuto opporsi strenuamente ed applicare il modus operandi indicato da Cristo: quando in una città non vi ascoltano uscite e scuotetevi la polvere dai calzari, ovvero cancellate quella città dalla predicazione. Quindi da un lato chiudere le chiese nei quartieri più abortisti, dall’altro promuovere opere di carità per assistere le giovani che non abortirebbero se avessero un aiuto. Neppure viene dato sostegno ai medici che rifiutano di praticare l’aborto che è il peggiore degli omicidi. Tra non più di dieci anni il ripopolamento con gli immigrati strappati alle loro terre per meglio saccheggiarle sarà causa di tragici rivolgimenti sociali. Non è necessario essere indovini.

  2. Papa Wojtyla verso la fine della guerra in Juguslavia chiese alle tante donne stuprate di non abortire. Giusto, ma in un paese sconvolto dalla guerra civile era difficile mantenere un figlio, per di più frutto di uno stupro. Il papa avrebbe potuto aggiungere a quell’invito un aiuto concreto: venite in Italia, dove abbiamo monasteri quasi vuoti e dove sarete ospitate sino ad un anno dalla nascita del figlio. Rivolto ai cristiani di tutto il mando: datemi un aiuto di ogni gerenere per compiere questa opera. La Chiesa ci avrebbe guadagnato in prestigio ed anche in denaro. Ma non lo fece e forse neppure ci pensò. Continuò ad implorare: non abortite, ma qualche aiuto venne solo dallo stato italiano. Mia figlia si prestò ad aiutare i profughi ospitati in qualche albergo della costa adriatica e mi raccontò che non fu facile perché, forse a causa degli orrori della guerra, non era gente di buon carattere.

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