L’Arte e il pensiero di Sigfrido Bartolini

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Le vetrate nella Chiesa dell’Immacolata a Pistoia sono lo stupendo coronamento dell’opera e della vita di un artista che mai nulla ha concesso alle mode e al sistema eterodiretto dell’arte. Su Sigfrido Bartolini (1932-2007) esistono ricche pubblicazioni, cataloghi di mostre e documentazioni in rete, ed è visitabile la sua Casa-museo.[1] Ad essi rimandiamo per gli aspetti biografici e per la sua opera complessiva, che spazia dalla pittura, all ’incisione, al monotipo, ai testi sull’arte, in grandi eventi editoriali e in collaborazione con scrittori e poeti. Un artista che in ogni fase della sua attività testimoniò il suo rapporto originale e acuto con la realtà e la figura, e insieme col mondo della fantasia, in una sintesi visionaria di grande finezza. Che si disse artigiano non per falsa modestia, ma per richiamare all’etica e alla disciplina dell’opera d’arte. All’altro estremo quindi delle tendenze che, auspice la casta dei critici d’arte, venivano via via imposte,tra narcisismo e insignificanza, in una carrellata di etichette che doveva precipitare nello sfacelo dell’arte contemporanea.

Oggi possiamo a pieno valutare la lungimiranza di Bartolini nell’ andare risolutamente contro corrente, e non in silenzio: mentre da una parte contempliamo la serena magnificenza delle sue “vetrate moderne”, dall’altra parte possiamo attingere a lui come intellettuale coerente e battagliero,sferzante nei giudizi ed anticonformista. Quindi niente elegia sugli artisti“attardati e appartati”: l’opera di Bartolini dimostra come la narrazione della storia dell’arte traguardata al concettuale è di per sé un’impostura, e che in ogni fase è esistita l’arte come risorsa umana integrale, riconoscibile e condivisibile, che ha in sé il timbro dell’uomo creatore e l’apertura al mistero della Creazione.

Le vetrate della chiesa dell’Immacolata

Una discreta chiesa alla periferia di Pistoia, dove già le vie sfumano nella campagna, tra muretti e vivai. La facciata un po’ arretrata, con la riserva di una piazzetta che fa da sagrato e dove apre la porta della canonica. Qui, dal dicembre 2006 filtrano la luce le 14 vetrate realizzate da Sigfrido Bartolini,ultima opera della sua vita, e forse la più impegnativa.

A raccontarne la storia (c’è un libro molto bello pubblicato da Polistampa)[2] si rischia la retorica, ma anche la favola: c’è una chiesa un po’ spoglia, c’è un artista anziano che sta nel quartiere, c’è un parroco ed una comunità parrocchiale entusiasti e tenaci, c’è una banca che investe nella città (bei tempi). Percorsi che si incontrano. Poi la vicenda si concentra nel rapporto affascinante e misterioso tra un tema da far tremar le vene e i polsi, una tecnica complessa, una personalità artistica forte ed intransigente che si fa umile davanti al tema (studia, si documenta) e davanti al mestiere (e si fa apprendista dell’arte vetraria) e anche da questo trae le energie per un progetto ampio e difficile, condiviso e atteso da un’intera comunità.

Bartolini offre in questo frutto estremo della sua stagione un esempio di coerenza ed insieme di vera libertà artistica: quella che si mette alla prova della trascendenza dei significati e delle regole della materia. È lui che chiama«moderne» le sue vetrate, nel titolo del libro che le illustra: moderne perché ben ancorate nel nostro tempo, senza imitazioni e nostalgie. Ma «non più moderne», nel mo­mento che rifiutano le facili ricette della modernità, il conformismo dell’insignificanza, il narcisismo degli ignoranti. Che, nel caso delle vetrate, ha voluto dire un’invasione di vetrate astratte la cui inerzia formale è animata solo dagli effetti di luce e dagli sproloqui dei commenta.

L’antica tradizione dell’arte vetraria è per­venuta fino a tempi recenti, raggiungendo nel XIX secolo vertici artistici anche nell’edilizia religiosa. I poliedrici artisti dell’800, ottimi disegna­tori dal solido me­stiere, si sono al bisogno cimentati con la vetrata, sia nelle forme art nouveau, che nel romantico e neogotico. Nel vetro il passaggio da artigianato ad arte è naturale e indefinibile; nella vetrata di chiesa l’integrazione con l’architettura, la sottolineatura della valenza simbolica della luce, il fine decorativo e devozionale, è operante in una collettività di con­tributi: dal committente all’artista al vetraio. Anche in questo la facile moda della vetrata astratta ha impoverito la tra­dizione, che si è rifugiata nell’imitazione in stile o nel restauro.

Esperto in tutte le tecniche artistiche, lanciandosi nell’impresa delle vetrate, Bartolini ha avuto la passione e l’energia di ricreare in sé e intorno a sé la con­divisione di sapienze, teologiche, ar­tistiche, artigianali, offrendo infine alla luce superfici cangianti e significanti, leggibili e riconoscibili, in cui il mistero e l’indicibile traspare dalle figurazioni realistiche di uomini, animali,ambienti e oggetti.

Nonostante questa robusta e unitaria impostazione (anzi proprio grazie a questa), le due serie di vetrate, sette sul lato sinistro della chiesa (Le opere di misericordia) e sette sul lato destro (I Sacramenti) hanno una poetica diversa.La stessa tecnica della vetrata a piombo, che valorizza il disegno e i contorni delle figure, dà risalto nella prima alle espressioni umane, alla corporeità; nell’altra isola e impreziosisce i simboli, come gioielli incastonati.

Le opere attive di misericordia sono rap­presentate da quat­tro figure di donne, quasi a ricordare che la carità e la sollecitudine sono un requisito spontaneo dell’animo femminile. Due uomini rappresentano invece chi attende un aiuto: il pellegrino,che vediamo accolto in una dimora. e il carcerato, a cui solo la luce dà speranza. Nella pietà verso i morti, è il sacerdote che dà all’atto il suggello salvifico e la prospettiva ultraterrena: il vero atto di misericordia è la testimonianza di fede nella Resurrezione.

L’arte figurativa, realistica, di Bartolini mostra persone con abiti d’oggi, senza che in questo si senta alcuna forzatura. I cesti, le mezzine, gli scialli, sono quelli di un mondo che permane nelle nostre case, o per lo meno nel nostro ricordo familiare: basterebbe poco, sembra ci dica Bartolini, perché rifiorisca tra le cose semplici e belle il seme della carità.

Le vetrate dei Sette Sacramenti espongono l’antica sapienza dei simboli e rifulgono del rigoglio della creazione: acque, piante, animali. L’uomo, anche nella sofferenza e nella morte è circondato dalla colorata e luminosa varietà degli esseri e delle cose. La bellezza vivente svela un significato più profondo: dal pesce al pavone, dalla spiga alla vite, dal libro al fuoco.

Un aspetto che accomunale due serie di vetrate, è quello dei pavimenti. Prendendo partito dal sezionamento delle lastre, che anima graficamente terre, acque e cielo,l’artista ha messo in evidenza l’onnipresente orizzontalità, che, scabra ovvero abbellita da piastrelle e scacchiere, ci ricorda le coordinate spaziali del nostro esistere.

L’elemento aereo è nella lunetta superiore, sia che vi campeggi un simbolo, o volino gli uccelli,o si muovano al vento panni stesi, fronde, bandiere. Via via che si scende nella vetrata, nella sua prospettiva schiacciata, si assume la concretezza del suolo ove ognuno percorre il cammino della vita, nel tempo di quella clessidra che a lui è destinata. Fa eccezione la vetrata dedicata al sacramento del Matrimonio, la più vicina all’altare, che è tutta celeste, floreale, eterea,quasi dimentica delle radici delle due esili piante che s’intrecciano, mentre l’amore, come il fuoco, tramuta i sensi in spirito. Ma anche qui c’è un richiamo al peso della concretezza umana: la bilancia, che resta in equilibrio solo nell’armonia delle differenti nature e vocazioni.

Se nelle Sette Opere di misericordia Bartolini raffigura la realtà umana, nei Sacramenti trasfigura quella stessa realtà in cui s’incarna la Fede. Mentre là è la luce a disegnare i volti, i gesti, i luoghi, qui è il simbolo che irradiala luce, le dà forma senza mutarla nella sua essenza. Le due serie di vetrate,si interrogano e si rispondono; e l’una e l’altra, nella loro sequenza e nella loro simmetria, “narrano”, e quindi introducono una dimensione che non è solo intuitiva e mistica, ma intellettuale e di condivisione, che testimonia anche in questo caso il primato della figurazione nell’arte sacra.

Gli scritti contro  «la grande impostura»

La raccolta di testi di Sigfrido Bartolini La grande impostura[3] ha per sottotitolo Fasti e misfatti dell’arte moderna e contemporanea. Essendo composta di articoli usciti in varie occasioni sulla stampa, ha di per sé un carattere frammentario: questo finisce per essere un ulteriore pregio, perché ogni pezzo va diritto e fino in fondo, senza preamboli e distinguo, e si avverte in trasparenza la diagnosi coerente e spietata sulla deriva che ha portato al naufragio[4]  dell’arte contemporanea, il quale va espellendo da decenni galleggianti e relitti.

Nel libro di Bartolini le parti relative ai fasti testimoniano nell’autore quel sicuro discernimento della qualità che teorici e promotori dei misfatti  hanno astutamente eliminato dalla critica d’arte e dal mercato. Si delinea l’imporsi del monopolio della Grande Impostura,che negli anni 90, a cui si riferiscono gli scritti di Bartolini, corroborata dai già pluriennali successi mediatici e mondani e dai cospicui sostegni finanziari e politici, organizzava i suoi ranghi in sistema, con effetto di progressiva desertificazione, dalle istituzioni formative al mercato.

Il sapore d’epoca di questi articoli sta ahimè nel fatto che oggi nessuno nel mondo dell’arte pare abbia l’indipendenza e lo stile di giudicare (facendo i nomi) gli artisti sopravvalutati e repentinamente storicizzati, su cui non si discute nemmeno più, ma che costituiscono l’antecedente necessario ed una specie di falsa e rassicurante alternativa all’indifendibile produzione dell’arte contemporanea di cartello internazionale.[5]

Bartolini non risparmia di stigmatizzare, in tempi di vacche grasse, lo spreco di denaro pubblico, sfociato negli in­sen­sati investimenti in Musei d’arte contemporanea; il suo commento alle mostre di Arte Povera è di piena attualità oggi, quando la stessa committenza ecclesiastica dà ad essa uno sconcertante credito, mentre nella prospettiva più che quarantennale dovrebbe caso mai essersi dissipato l’equivoco di chi vide in essa profondità di significati e addirittura un’etica francescana.

Il tono dei testi di Bartolini è pessimista ma non cupo, perché chi è artista ha il senso della continuità con la grande tradizione, anche nella discontinuità dei tempi; oltre a bollare senza giri di parole le mistificazioni di un’arte «inutile e noiosa», l’autore non tace del cedimento etico e professionale che ha favorito, anche presso chi doveva sovrintendere al patrimonio, l’incredibile resa di una tradizione artistica unica al mondo di fronte ad avanguardie sostenute dai dollari e da apparati che Bartolini  non esita a definire mafiosi. Come del resto, con humour ma senza remore, descrive la costruzione a tavolino dell’”artista”, brano che riportiamo per esteso non per infierire su Paladino (ormai al sicuro nella storia dell’arte), ma come versione tutto sommato inoffensiva di operazioni, ripetute poi a livello planetario, terroristico e speculativo, d’invenzione-imposizione delle squallide star dell’arte contemporanea.

La chiarezza spietata e lungimirante di Bartolini non è scindibile dalla sua arte sapiente, forte e discreta. Le sue posizioni anticonformiste non possono essere mitigate nella retorica dell’artista “fuori del suo tempo”: caso mai è proprio oggi che esse rivelano a pieno il loro valore di affermazione positiva dell’Arte, la loro lucidità e razionalità, la loro carica di giovanile audacia.

 

(1- continua)

 

 

[1]       A Pistoia, a duecento metri dalla Chiesa dell’Assunta, si trova la casa-studio dell’artista, facente parte dell’Associazione Case della Memoria. La Casa di Sigfrido Bartolini, dimora familiare e Casa-Laboratorio, rappresenta lo specchio della sua vita e della sua opera di pittore, incisore, scrittore. (Qui)

[2]       Quattordici vetrate moderne di Sigfrido Bartolini nella Chiesa dell’Immacolata di Pistoia, ed. Polistampa, Firenze 2007.

[3]       Sigfrido Bartolini, La grande impostura. Fasti e misfatti dell’arte moderna e contemporanea, Polistampa, Firenze 2002, ristampa 2007.Si tratta di una raccolta di articoli pubblicati nel corso degli anni 90 sul quotidiano «Il Giornale» e su altre testate, a commento di mostre ed eventi culturali.

[4]       Si tratta di un’immagine efficacemente usata da Jean Clair in L’hiver de la culture, ed. Flammarion 2011 p.83 (trad. it. L’inverno della cultura ed. Skira 2011)

[5]        In uno degli articoli la logica di Bartolini non ha potuto spingersi fino ad immaginare ciò che poi sarebbe effettivamente avvenuto. Quando, a seguito delle sue critiche alle opere di W. Congdon, venne fatto oggetto di polemiche indifesa dell’artista americano «convertito al cattolicesimo e pertanto intoccabile», non arrivava certo a prevedere che, nel giro di un decennio, la conversione di Congdon sarebbe diventata agli occhi di certi settori della Chiesa un titolo di demerito artistico, a confronto degli atei militanti, da corteggiare con mostre, convegni e commesse milionarie.

 

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