Un Nobel al politicamente corretto

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Il premio Nobel 2022 per la letteratura è stato assegnato alla francese Annie Ernaud, riconoscimento di una carriera di scrittrice di successo. L’evento non è però così anodino, né l’opera dell’Ernaud solo un’ennesima variante del romanzo-non romanzo, dell’autobiografismo cento pagine.

La tendenza ideologica del Premio Nobel è sostanziale, per così dire nativa, ma in questo caso appare doppiata da un’inquietante scelta del momento: col premio alla

Ernaud, si sancisce infatti l’oggettualizzazione del politicamente corretto prêt-à-porter, facile e riconoscibile, da indossare da parte dei media colti come dei social ed influencer analfabeti, con dosaggi esatti di diritti, periferie, pseudosinistra, erotismo anatomico ecc…

A tale scopo era da tempo disponibile questa Annie Ernaud, che ragionieristicamente ha negli anni intercettato col pretesto autobiografico le cronache esistenziali del femminismo e del progressismo, accuratamente depurate d’ogni analisi di classe e di ogni rigore intellettuale e morale, a meno che non si scambi per tale uno stile di scrittura tetro e pedante. Eccola quindi pronta a prendere nientemeno che l’eredità (ne parla come di sua ispiratrice) di Simone de Beauvoir, a cui la imparenta la mediocrità letteraria, ligia alle strette convenzioni dell’epoca, e all’autocompiacimento. E certo è decisivo che la Ernaud faccia parte del ceto di personaggi mediatici, pronti per le raccolte di firme, i manifesti degli intellettuali, tipici della gauche francese inneggiante alla cultura della morte, da Battisti all’aborto.

Acquisito quindi che il premio Nobel per la letteratura 2022 è un evento totalmente ideologico, il senso di prefabbricato che ne deriva non toglie all’Ernaud le sue responsabilità.

 

Bambino nel grembo materno disegnato da Leonardo da Vinci (1511 ca.), dettaglio dal codice Windsor sugli Studi sugli embrioni

 

Ella è sotto questo aspetto una tempista assai abile: retrodata agli anni 50 o anteguerra il patriarcato che secondo lei avrebbe vissuto da ragazza (anni 60-70, quindi i conti non tornano), è oggi puntualissima nel celebrare la rivincita femminile del toy boy. Il suo autobiografismo impiega le usuali risorse delle storie familiari, del sesso, del feticcio dell’“autorealizzazione”, squadernati in uno stile soporifero, ma rassicurante per il lettore che vi trova conferma dei suoi pregiudizi. Il tutto –ricordi di famiglia e performance sessuali-sta a contorno all’opera/fulcro, da lei intitolata appunto L’Événement  (L’evento), del 2000, cronaca del suo aborto clandestino, con la quale veniva ad offrire alla mistica dei diritti un pacchetto d’immagini e parole, spacciato poi dallo squallido film che ha vinto a Venezia il Leone d’oro 2021, ed ora ovviamente tornato in auge tra commenti e interviste.

Per la Ernaud, dichiaratamente, la realizzazione della donna, in questo caso nientemeno che di una futura premio Nobel, passa attraverso lo svuotamento –morale e tecnico- della sua identità materna, e la negazione feroce della realtà e valore della vita nascente. Se questa è una sua vanità[1], con l’assegnazione del premio Nobel, L’Événement  ha oggi il suo momento strategico, evocando l’aborto clandestino in forma cinica e ricattatoria, a fronte di qualunque discussione e riflessione sulla tragedia di massa che è l’aborto come misura anticoncezionale.

Ma se in fondo quello che per lei ha contato e conta è che possa scrivere, se una donna può uccidere per scrivere, e poi questa scrittura è autoreferenziale, ripiegata nella contemplazione di se stessa, allora il tutto è una bolla, una mistificazione.  Per l’eterogeneità dei fini, avviene così che la sola vibrazione autentica dell’opera dell’Ernaud sia quella della frustrazione, della nostalgia di chi rimembra le tensioni e le sofferenze del passato rimpiangendone il pathos, l’eccitazione di più o meno immaginarie lotte. Di chi vive nell’inimicizia –contro l’uomo, contro il feto, contro l’identità femminile – la sua unica emozione, ed ha l’unica risorsa –morale, intellettuale – di cercare e suscitare continuamente un nemico, di esporre una vittima, un torto, per poter odiare e ritorcere. L’Ernaud è quindi un’ennesima “femminista di professione”, specializzata nel confezionamento di libri che consistono nell’autorappresentazione dell’autrice, e a cui lei, con il suo “impegno” pubblico, è tenuta a dare credibilità: una mise en abîme, che nella quantità –dei libri, degli eventi mediatici ecc…- duplica il vuoto.

Per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli estraniamenti e i vincoli collettivi della memoria personale” dice la motivazione del premio Nobel: ma ciò che manca prima di tutto nel prodotto-Ernaud è il coraggio, lo sguardo aperto e consapevole sul mondo, il respiro tematico e stilistico. Quanto all’esercizio di memoria, che può essere interessante come documento, anche su di esso stinge il pregiudizio ideologico, la tendenza ad un anacronismo tra i fatti, la pretesa testimonianza, l’adeguamento pedissequo alle mode. L’ottuagenaria Annie Ernaud schiera tutte le sue età per farsi contemporanea e propagandista della marcia distruttiva, omicidiaria, delle teorie del gender e dell’aborto, contro i problemi reali delle donne e l’identità femminile come verità.

 

[1] Fa venire in mente l’attrice Michelle Williams che nel 2020, ritirando un premio ai Golden Globes, dava il merito di esso all’aver abortito per dedicarsi alla carriera.

 

 

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